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Colpo di scena

~ di Francesca De Sanctis

Colpo di scena

Archivi Mensili: agosto 2015

A Montréal il film è servito

25 martedì Ago 2015

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falcone, montreal, persello

Sono soprattutto camerieri. Lavorano nei pub e nei ristoranti di Roma. Qualcun altro è impiegato nei call-center e c’è perfino un elettricista arrivato in Italia a bordo di un canotto partito molti anni fa dall’Albania. Cosa hanno in comune queste persone? Udite udite… fanno tutte parte del cast dell’unico film italiano in concorso al Festival des Films du Monde di Montréal nella sezione “Opera prima”. Il film si intitola The Plastic Cardboard Sonata ed è scritto da Piero Persello, Enrico Falcone, Alberto Bosani. Regia: Piero Persello ed Enrico Falcone. Due perfetti sconosciuti, direte voi. E allora ve li presentiamo.

Enrico e Piero sono due amici trentenni. Entrambi montatori audiovisivi, uno dipendete, l’altro freelance. Il primo è di origine ciociara, il secondo friulano. Si sono conosciuti a Roma e ora vivono tutti e due a Monterotondo. Ma  – chiedo loro – come siete finiti a girare un film che sarà proiettato in anteprima al Festival di Montréal (27 agosto-7 settembre)? «È partito tutto da una chiacchierata fra amici e dal grande desiderio di fare prima o poi un film – ci racconta Piero – Volevamo raccontare la solitudine delle nuove periferie partendo da Porta di Roma, dove vivevamo, un quartiere strambo e asettico. Così abbiamo cominciato a pensare ad un soggetto. Poi a noi due si è aggiunto un vecchio amico che lavora per il teatro, Alberto Bosani, e alla fine – tra un turno e l’altro di lavoro -. la sceneggiatura era scritta». Il bello è che non si sono fermati qui, ma sono andati avanti, pur non avendo grosse somme su cui poter contare. Ma senza produzione alla spalle come si fa? «Avevamo qualche risparmio e alla fine con meno di 20mila euro abbiamo realizzato il nostro film, grazie al lavoro gratuito di tutto il cast che ha condiviso con noi la grande passione per questo progetto». E pensare che per poco The Plastic Cardboard Sonata non è tra i film selezionati per le Giornate degli autori di Venezia…

«La svolta del progetto è stato l’incontro con il direttore della fotografia, Giuseppe Maio, una persona molto competente che si è innamorata della nostra idea. Lo abbiamo trovato grazie al web, dove abbiamo iniziato a far girare dei piccoli video per la ricerca di fonici, attori ecc.. Così abbiamo cercato anche le persone che poi hanno lavorato con noi al film. In tutto sono stati coinvolti 28 attori. Sei le location, individuate grazie all’aiuto prezioso di Lucia Pacella, che ci ha risolto anche tanti problemi di logistica sul set. Devo dire  – continua Piero – che abbiamo incontrato un’umanità meravigliosa in questa nostra esperienza. Anche i proprietari dei locali in qui abbiamo girato in quei 15 giorni di un’estate fa sono stati tutti molto disponibili. E gli attori molto generosi. Qualcuno di loro aveva fatto qualche comparsa, come Andrea Vasone, per esempio, ma tutti fanno altri lavori nella vita. Fabiana Feliziani, che nel film fa la parte di una cameriera lo è anche nella vita vera. Snejana Shcandarinova, invece, è una fotografa  e non aveva mai recitato prima. Il compositore, Pasquale Mollo, lavora in un call-center e tra i gli attori, nella parte di un cliente, c’è anche un elettricista albanese che è arrivato in Itali in canotto…».

Il film racconta la storia di un modesto agente immobiliare che, in un’anonima periferia di una città qualunque, trascorre una vita sempre uguale. «Dietro questa parvenza di “normalità compulsiva” si nasconde però una condizione di isolamento quasi autistico – spiegano i due registi –  Così, nel tentativo di costruire l’illusione di un mondo ideale, con l’aiuto di un gruppo di figuranti, ogni giorno lui mette in scena una grottesca rappresentazione del “quartiere perfetto” orchestrata con minuziosità maniacale». Una storia che ci parla di individui anonimi e annoiati, ma anche di un Paese che nutre ancora delle speranze, un’Italia popolata da artisti che partecipano ad un’impresa affascinante, senza alcuna pretesa economica, ma solo per il piacere di fare qualcosa per cui vale la pena mettersi in gioco e in qualche modo lottare.

(l’Unità, 23 agosto 2015)

Ecco il trailer del film: https://vimeo.com/135590192

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Haber, quasi 50 anni di carriera e un futuro da regista

23 domenica Ago 2015

Posted by francescadesanctis in cinema, Teatro

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bukowski, haber, pasolini

Sigaretta alla mano, uno sguardo veloce alla posta raccolta poco prima dalla buca delle lettere e poi si comincia. Gli occhi di Alessandro Haber si accedono appena inizia a parlare, mentre se ne sta seduto davanti alla sua scrivania piena di cose, libri, quaderni, piena come la sua vita, un susseguirsi ininterrotto di film, spettacoli, concerti.

Sono quasi cinquant’anni di carriera… mica male. «Si, ma non mi sento “arrivato”. Ho esordito molto tempo fa, questo è vero. La Cina è vicina di Marco Bellocchio fu girato nel 1966 ed uscì nel 1967, in effetti quasi mezzo secolo fa. Si può dire che il lavoro è l’unica vera donna della mia vita». Poi, dopo Bellocchio, Bernardo Bertolucci, i fratelli Taviani, Mario Monicelli, Pupi Avati, Francesco Nuti, la tv, il teatro (tanto) e pure i concerti… Insomma, non si è fatto mancare nulla. Eppure, lo spettacolo teatrale al quale resta più legato è uno solo: Orgia di Pier Paolo Pasolini con la regia di Mario Missiroli. «Mi arrivò la proposta mentre ero a Londra. Ero lì anche dieci anni prima, quando appresi la notizia della morte di Pasolini. Quindi interpretai quella telefonata come un segnale, una strana casualità…Ovviamente accettai la parte e lo spettacolo fu un successo enorme. Nel monologo finale sulla diversità cosmica mi spogliavo completamente nudo, ma non era un nudo volgare. Perfino Laura Betti, anche lei nello spettacolo, fu turbata dal successo. Non se lo aspettava». E poi aggiunge: «Quanto avrei voluto lavorare con Pasolini! Ho avuto la fortuna di conoscerlo. Avevo solo 18 anni ma ero già animato da una grande passione per la recitazione, che nutrivo sin dai tempi della mia infanzia in Israele. Lui venne a fare un seminario allo Studio Fersen, già allora era un regista rivoluzionario, un outsider». E mentre parla gli viene in mente Charles Bukowski…

Pasolini e Bukowski

«Tutti e due in fondo sono contro il perbenismo, la burocrazia, la falsità e il malgoverno, entrambi sono sempre stati dalla parte degli ultimi. Uno, Bukowski, scriveva in modo irregolare, l’altro, Pasolini, aveva una poetica razionale. Ho amato molto i film di Pasolini e poi era un artista puro. Avevo anche recuperato il numero di telefono della madre e ogni tanto la chiamavo, ma non sono mai riuscito a parlare con lui, avrei tanto voluto dirgli: voglio lavorare con te!». Di Pasolini Haber leggerà alcuni brani a fine mese, nel piccolo Borgo di Gallo Maltese, mentre a Bukowski ha già dedicato uno spettacolo teatrale che tornerà a girare, rinnovato, nella prossima stagione (Haberowski, a febbraio all’Elfo Puccini di Milano).

Ma la formula del reading funziona? «Direi di si, io metto la stessa passione in tutto quello che faccio. Tra le altre cose la prossima stagione riprenderò, per il terzo anno, lo spettacolo Il visitatore, con la regia di Valerio Binasco, e poi il mio grande progetto: la regia di film. Quando ho tirato fuori dal cassetto lo scritto di Nicola Guaglianone ho pensato: è una storia bellissima! Ma non posso rivelare altro al momento».

La regia 

Non sarà però il primo film da regista per l’attore bolognese classe 1947, che nel 2003 girò Scacco pazzo, trasposizione cinematografica della pièce teatrale omonima di Vittorio Franceschi, messa in scena nel 1990 da Nanni Loy (il film verrà proiettato il prossimo 31 agosto all’Isola Tiberina di Roma). «Purtroppo la pellicola non venne distribuita perché il produttore tedesco fu raggiunto da un’ingiunzione di pagamento e quindi sommerso dai debiti. Ci rimasi così male… Mario Monicelli, che lo aveva visto, mi disse: “Hai fatto un grande film”. Ma sono rimasto troppo scottato e non ho più fatto regie da allora. A settembre però ne farò una piccola: dirigerò uno dei cinque episodi de La provincia bianca, cinque storie sul sociale, dall’operaio dell’Ilva al giro di malaffare. In uno dei cinque reciterò anche. Per la stagione teatrale del 2016, invece, sarò in scena con un testo molto bello sull’alzheimer, Il padre di Zeller, prodotto dalla Goldenart (di Placido e Visconti)».

Non ci vuole molto per capire che ad Haber piace mettersi in gioco. «Lo faccio anche con la musica – racconta – Il suono non ha bisogno di traduzioni, lo trovo affascinante». Per lui Francesco De Gregorio compose La valigia dell’attore. «Mi diceva che avevo una grande musicalità e che l’armonia è una cosa che ci portiamo dentro. Il prossimo concerto? Il 23 agosto a Vasto».

I personaggi

Tantissimi i personaggi a cui l’attore ha prestato il suo corpo e la sua particolarissima voce. «Fare questo mestiere mi permette di stare fuori dagli schemi del quotidiano. C’è un po’ di me in tutti i personaggi, quando interpreto un omosessuale, per esempio, cerco di tirare fuori la parte femminile che è in me, e la stessa cosa succede quando faccio la parte di un personaggio ignobile, ecco che viene a galla la parte più cattiva». Un ruolo non ancora interpretato? «Il trans. Mi piacerebbe cimentarmi in questa parte. Anche quella del serial killer non mi dispiacerebbe. Diciamo che mi attraggono i personaggi negativi». Quando gli chiedo dei registi, quelli con i quali non ha mai lavorato mi dice senza pensarci troppo «Paolo Virzì». Poi si sofferma però sui registi con i quali tornerebbe a lavorare volentieri: «Mi piacerebbe moltissimo essere diretto di nuovo da Marco Bellocchio, regista con il quale ho esordito, e con Nanni Moretti. Con lui ho fatto Sogni d’oro, ma litigammo e da allora non abbiamo più lavorato insieme. È un peccato, perché da registi come Bellocchio o Moretti è come se mi fossi fatto scopare… Mi hanno fatto godere e mi piacerebbe tornare a godere con loro, ecco». Poi il pensiero corre ai giovani, «con i ragazzi mi trovo molto bene» dice. E qualche istante dopo ripensa a Monica Scattini, l’attrice scomparsa pochi mesi fa: «Mi manca molto, era la mia amica del cuore, abitava a poche centinaia di metri da casa mia». Infine parla del nostro Paese, della cultura da valorizzare e della scuola, dalla quale «bisogna ripartire – dice – per sensibilizzare gli studenti». L’altra sua donna, tra l’altro, a parte il lavoro, si chiama Celeste ed è sua figlia. «Mi piacerebbe se scegliesse di fare l’attrice nella vita». Ma per ora ci pensa lui a girare teatri e film perché «Haber – dice – è sempre da vedere».

(l’Unità, 20 agosto 20015)

Toglietemi tutto, ma non il lavoro

20 giovedì Ago 2015

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graziosi, lavoratori, leonardi, patella, scarpati, spettacolo

«Cosa faccio nella vita? L’artista… bellissimo mestiere sì, c’è solo un piccolo dettaglio: si lavora tanto tanto tanto, per guadagnare poco poco poco». Se sei fortunato. Perché c’è anche chi è costretto a svolgere più lavori contemporaneamente pur di potersi dedicare alla grande passione della propria vita: il teatro o la musica, per esempio. Che non vuol dire – chiariamo subito – poter coltivare il proprio hobby, ma esercitare un mestiere, che sia quello del musicista o dell’attore. Spieghiamo ancora meglio. Stiamo parlando di tutti quegli artisti – impossibile quantificare il numero, ma sono tantissimi  – che si autoproducono o che non hanno enti alle spalle, dunque nessuna tutela sindacale, nessuna certezza.

Sono un popolo variegato e agguerrito, professionisti – non giovani alle prime armi –  che spesso svolgono questo mestiere già da parecchi anni, e che vogliono solo una cosa più di ogni altra: fare il proprio lavoro. E pur di andare avanti sulla strada intrapresa sono pronti a tutto: sveglia all’alba per raggiungere posti assurdi e rientro in nottata per evitare le spese di alloggio, cachet ridimensionati perché «o quello o niente», spettacoli alleggeriti di scenografie, schede tecniche più semplici possibili per risparmiare sui costi… Ma alla fine – tra viaggi, tagli e costi vari – si riesce a vivere decentemente col proprio lavoro?

«Bella domanda… diciamo che si sopravvive». Walter Leonardi, 58 anni, vive a Milano e i suoi spettacoli teatrali sono tutti autoprodotti. «Questo significa non avere uno spazio in cui poter provare o averlo a prezzi improponibili oppure dover provare, come mi è capitato, in un capannone a luglio con 50 gradi.. Ho perso quattro chili lavorando così, ma mi serviva uno spazio grande e non avevo alternative. Purtroppo con i teatri istituzioni nessun dialogo è possibile. E poco importa se fai un teatro di buon livello. Ho iniziato la mia carriera artistica nel 1994 con Giorgio Barberio Corsetti, con gli anni mi sono reso conto che non potevo andare avanti in quel modo ed ad un certo punto ho iniziato a lavorare per la televisione e per il cinema. È l’unico modo che ho per guadagnare qualcosa: tv e film. Questo però non significa che io possa comprarmi una macchina nuova o programmare una vacanza, e per fortuna non ho una famiglia da mantenere altrimenti sarebbero stati guai seri… Da un paio di anni viaggio moltissimo – continua a raccontare –  ma gli incassi sono ridicoli: diciamo che ne spendo 700 per guadagnarne 708, cioè questo significa che il mio guadagno netto di una serata è pari a otto euro. E a volte, soprattutto nei locali, faccio spettacoli di cabaret per 200 euro».

A lavorare in queste condizioni in Italia sono tantissimi. Laura Graziosi, per esempio, ha 37 anni e vive a Roma da cinque. Ci racconta soprattutto le difficoltà della sua generazione: «c’è un abisso rispetto alle condizioni di lavoro della generazione precedente. Alla mia età loro facevano tournèe lunghissime e potevano fare progetti di vita, per noi è impensabile. In genere mi ritrovo a fare chilometri e chilometri con la mia Panda pur di non rinunciare alle date che riesco a mettere insieme. Spesso percorro 400 km ad andare e 400 km a tornare in una stessa giornata, solo per un cachet di 300-400 euro. Quando sei giovane e alle prime armi puoi farlo, dopo un po’ però una vita così comincia a pesarti. Come farò fra dieci anni?  Se hai alle spalle un teatro che produce la situazione è diversa, sei più tutelato. Ma l’autoproduzione è completamente avvolta dall’incertezza: pagamenti che arrivano dopo mesi, date da cercarti da solo, autopromozione ecc.. Intanto c’è l’affitto da pagare». Laura convive con altre due persone, l’affitto è di 350 euro a testa. «In questo momento riesco a coprire le spese mensili ma con molta fatica. Il problema è tutto il sistema: la mancanza di fiducia per la nuova drammaturgia, il pubblico che non va  a teatro, la difficoltà di avere un calendario ricco di repliche. Ma è non è semplice invertire la rotta. E allora si fa anche l’impossibile: ti adatti agli spazi, rendi lo spettacolo più agile possibile. A volte è molto dura ma io non demordo».

Non molla neppure Maurizio Patella, 40 anni, genovese trapiantato in Toscana. «Ho frequentato la Paolo Grassi di Milano – racconta – Quando sono uscito dalla scuola non è stato facile, ho fotto mille lavori ma almeno qualche provino c’era. Poi è diventato tutto più difficile. Ho lavorato soprattutto con il teatro per i ragazzi. Ogni tanto ho avuto anche qualche bella recensione dei miei spettacoli, belle soddisfazioni ma soldi niente… Mi ricordo in particolare un’estate in cui ho avuto la nomination al premio Ubu, quell’estate sono finito a montare un palco per una festa… Mi sono molto scoraggiato, ma poi alla fine hai sempre la sensazione di costruire qualcosa e allora vai avanti lo stesso. Io personalmente riesco a mantenermi soprattutto con l’insegnamento e i laboratori. Ma spesso, per non saltare la lezione, ho attraversato l’Italia in un giorno. Non posso permettermi di perdere una giornata di lavoro». Maurizio ha una compagna e una figlia, ma non ha una casa di proprietà. «Figuriamoci, quale banca mi concederebbe un mutuo? Mi resta però la bellezza di fare una cosa che mi appartiene».

I lavoratori stagionali

Sono tempi molto duri, e non solo per gli artisti, ma anche per tutte le altre figure del mondo dello spettacolo, come i tecnici per esempio. Samos Santella, 50 anni, vive ha Napoli ed è padre di due figli. Fa il tecnico da trent’anni, sente parlare di teatro da quando è nato essendo “figlio d’arte”. «Fare questo mestiere è diventato sempre più complicato perché le compagnie sono in crisi e di conseguenza non mantengono le promesse contrattuali. Una vita sacrificata… Almeno un tempo i soldi ripagavano i sacrifici, Oggi non è più così, e se non accetti le loro condizioni sei fuori. Per molti anni sono stato un tecnico fisso in un teatro, poi non è stato più così e sono iniziati i problemi. Tra l’altro noi siamo considerati dei lavoratori stagionali e il jobs act non ci aiuta molto per quanto riguarda la disoccupazione: il lavoro è sempre più precario e non riusciamo a lavorare per un periodo sufficientemente lungo da permetterci di avere diritto alla disoccupazione. Il problema è che non circola molta informazione fra di noi, non c’è sindacalizzazione. Mi sembra che in generale, negli ultimi 3-4 anni, in tanti stiano mollando, compresi professionisti storici. C’è una crisi generale del settore e le compagnie si appoggiano sempre più ai service. Così viene meno anche la professionalità. E comunque è una guerra fra poveri».

Se poi provassimo a fare un paragone con gli altri Paesi la situazione rilsulterebbe ancora più paradossale. «Per un periodo ho fatto molte tournèe soprattutto in Germania, Austria e Francia – ci racconta Pietro Sinatra, 37 anni, romano – Cachet e organizzazione sono molto diversi rispetto all’Italia». Pietro nella vita fa il batterista, suona in tre gruppi musicali contemporaneamente. «Ho iniziato ad amare la musica da bambino, prima ho coltivato questa passione da autodidatta e poi ho studiato. Purtroppo però non riesco a guadagnarmi da vivere solo facendo concerti, per me è fondamentale l’insegnamento, come per il 90% dei musicisti italiani. Così la maggior parte delle mie entrate proviene dalle lezioni, 20 euro a ora. Quando suono nei locali, al netto delle spese, posso guadagnare 50-80 euro se va bene. Il cachet per il gruppo può oscillare fra i 200 e i 400 euro. Di sicuro mi va meglio con il terzo gruppo, quello con cui suono per i matrimoni. In quel caso posso guadagnare anche 150-200 euro (il gruppo 1200-1300). In genere ne faccio due-tre a settimana di concerti. Peccato che i nostri cantanti, quelli che hanno sfondato, scelgano sempre più spesso musicisti americani. Ed è un peccato perché di musicisti italiani bravi ce ne sono tantissimi». Ogni tanto, mi capita anche di essere chiamato per registrare un disco. «E allora lì le cose vanno abbastanza bene perché vengo pagato a giornata, in quel caso posso guadagnare circa 100 euro. Ma succede spesso, devi stare in certi circuiti. Comunque, in generale, quando mi imbatto in qualche proposta lavorativa – anche se il guadagno è molto molto basso – cerco di prenderla al volo, perché quello che più conta per me è lavorare».

Ripartire dalla scuola

È talmente complicata tutta la situazione dei lavoratori dello spettacolo che perfino il sindacato fa fatica ad imporsi. Giulio Scarpati, per cinque anni presidente Sai (Sindacato attori italiani), ci spiega perché: «È difficilissimo tutelare la nostra categoria, eppure cerco di farlo da molti anni, ma la sensazione è che non si muova una foglia. Io credo che sia soprattutto una questione culturale: essere attori è un lavoro e già questo concetto è molto difficile da far comprendere a chi non è del settore. Siamo senza dubbio delle figure atipiche e ciò implica la difficoltà di essere inseriti in una categoria piuttosto che in un’altra. Poi ognuno di noi segue un proprio percorso, ma senza dubbio se si vuole dare un minimo di sicurezza bisognerebbe, per esempio, dotarsi di un contratto che permetta di non andare al di sotto di certi limiti. Se ci sta a cuore il futuro – aggiunge – si deve ragionare sul futuro. E allora partiamo dalla scuola: andare a teatro non deve essere una sorta di deportazione per gli alunni, ma bisogna educare i giovani ad amare il teatro. L’attore, tra l’altro, non chiede ferie, vacanze o altro, chiede solo di lavorare, perché se non lavora è come se perdesse la sua identità. Forse bisognerebbe investire meno nelle strutture e più nelle produzioni. In questo senso la riforma del teatro mi pare che vada più in questa direzione». Poi aggiunge: «Ho visto la Tosca all’Opera di Roma l’altro giorno e ho notato che c’erano tanti stranieri. Mi sono molto sorpreso, ma non dovrebbe essere un caso eccezionale, perché più uno spettacolo viene apprezzato più attira altro pubblico, e se c’è varietà di proposte ovviamente c’è anche più lavoro».

Scarpati ci saluta facendo gli auguri a l’Unità, lui che molti anni fa il giornale lo diffondeva. «Eravamo animati da una grande passione politica – dice – Oggi l’Unità dovrebbe essere un luogo prezioso per approfondire certi argomenti, uno spazio di riflessione». In fondo, tempo fa, ci lavorò anche a l’Unità, come correttore di bozze nel film “Mario, Maria e Mario” di Ettore Scola. «Andammo a presentarlo a New York e, dato che c’erano i Mondiali, convinsi Ettore, che non aveva mai seguito il calcio, a venire allo stadio: mentre io guardavo la partita lui passò tutto il tempo ad osservare il pubblico». E allora, conclude, «un grosso in bocca al lupo a l’Unità».

(l’Unità, 8 luglio 2015)

Gli amori di Piera e quella lettera inedita di Lucia Dalla

09 domenica Ago 2015

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dalla, esposti, lucio, mitchum, piera, strabioli

Il nostro incontro inizia con lei che mi chiama dalla finestra ed io che sbuco in casa sua accompagnata da una signora incontrata per caso poco prima. Qualche secondo di imbarazzo (dovuto ad un piccolo equivoco sull’ascensore) e poi cominciamo la nostra chiacchierata, comodamente sedute su un divano bianco che sembra appoggiato su una grande nuvola avvolta tutta intorno dalla luce che invade l’intero l’appartamento. «Bello che l’Unità sia tornata in edicola, è il giornale che abbiamo sempre letto in famiglia» mi dice Piera Degli Esposti. «Mio padre, che era un sindacalista, la leggeva tutti i giorni», aggiunge, e con il pensiero corre velocemente indietro nel tempo.

Vorrei chiederle tante cose, della sua lunga e intensa carriera di attrice soprattutto, ma il suo discorso prosegue sul filo del ricordo personale e ne approfitto per farla parlare. Il suo modo di raccontare le storie è così avvolgente che in quei pochi attimi hai come la sensazione di essere protetta da una bella coperta calda mentre leggi un buon libro davanti ad un camino. E pensare che fuori ci sono quasi 40 gradi… Ma durante la nostra conversazione quell’afa che sta asfissiando Roma sembra non riguardarci. Le chiedo di tornare con la mente alla sua infanzia. Qual è il primo ricordo? «Tende blu – mi risponde – Una casa al mare. Guardo le tende che vanno su e giù. Io sono seduta. Sì, il blu. È un colore a me familiare. Detesto ciò che è ignoto. Ecco perché non ho costruito altra famiglia all’infuori della mia. A mio modo volevo fermare il tempo. So che non si può fare, fermare il tempo intendo, ma a mio modo ho agito perché fosse sempre presente la mia vita prima. Ho avuto molti fidanzati – aggiunge – ma mariti mai».

Miss Perla dell’Adriatico

È stata innamorata però, le dico. «Sì, innamorata sì. Ero una ragazza fuori dalle regole con una madre fuori dalle regole. Facevo tenerezza, i ragazzi avevano voglia di proteggermi. Sono stata molto fortunata con gli uomini…». Ha avuto tanti corteggiatori Piera, “Miss perla dell’Adriatico”. «Sono stata una “conquistatora” – dice – e quando gli uomini vengono conquistati sono buoni. Io ero innamorata di mio padre. Dicevo che l’avrei sposato. Sono innamorata dell’amore. Il mio corpo, per esempio, è un corpo giovanotto pur non essendo io una  persona che fa massaggi o altro; faccio nuoto, è vero, ma perché mi piace; il mio corpo giovanotto, dicevo, è dovuto al mio amare l’amore. Sono innamorata della vita e dei giochi. Per le donne l’amore è un gioco mentale. Io credo che noi donne siamo meno portate a fare quella ginnastica che gli uomini amano tanto. Il gioco dà spazio all’immaginazione, ma quella in cui viviamo mi sembra un’epoca modesta. Non ci sono grandi giocatori dell’amore, strateghi, corteggiatori. I ragazzi sono spesso affascinati da persone più grandi, giocherellone. Anche le mie due storie d’amore più longeve le ho avute con uomini più giovani di me. Il mio ultimo compagno, Alberto, – scomparso improvvisamente in un incidente stradale – aveva 28 anni meno di me. Amava le corse d’auto. Siamo stati insieme per 13 anni, anche se lui diceva 14. E anche il mio compagno precedente, Massimo, aveva 18-19 anni meno di me. Sono stata agevolata dal fatto di non aver avuto figli. Ho viaggiato sempre “leggera”».

Da Robert Mitchum a Manzoni

E a proposito di amori, le dico, ho trovato molto commovente la lettura di quella lettera che lei stessa scrisse e fece recapitare a Robert Mitchum, molti anni fa. Di lui – e non solo, ma anche delle varie e tante tappe della vita di Piera – si è parlato molto qualche sera fa, ai Giardini della Filarmonica di Roma, dove l’attrice era ospite della rassegna “I solisti del Teatro”. Punzecchiata da Pino Strabioli, che con grande simpatia stava al gioco dei doppi sensi e degli equivoci da lei innescato, ha raccontato del suo amore per l’attore hollywoodiano, sbocciato ai tempi dell’adolescenza, della lettera che lei gli scrisse e dell’incontro avvenuto pochi anni prima della scomparsa di Mitchum, una storia raccolta anche da Francesco Vaccaro che ne ha fatto un prezioso documentario.

Poi c’è l’amore per la cultura, per il teatro naturalmente, per il cinema. «Ho imparato a conoscere Dante, Manzoni, Leopardi da mio padre – dice riprendendo il discorso – . Manzoni per esempio non lo amavo, poi lui mi ha accompagnato come faceva con i suoi operai. Ho avuto e ho la sua compagnia ogni volta che leggo. Se vuoi fare l’attrice, mi diceva, non puoi non interpretare La professione della signora Warren di George Bernard Shaw, che poi non mi è mai capitato di fare, come pure Pirandello. A proposito, una sera mi si avvicinò un signore brillante e mi disse: “Lei non ha mai fatto mio nonno!”. Era il nipote di Pirandello». E da sua madre, invece – un personaggio divenuto a noi quasi familiare grazie ad un film di Marco Ferreri, Storia di Piera, tratto da libro scritto da lei stessa con Dacia Maraini – cosa ha imparato? «Da mia madre ho imparato ad amare l’amore. Lei è stata molto criticata, anche dal partito comunista che l’accusò di avere una condotta scandalosa. Era considerata un problema, avendo dei progetti per mio padre. Che ricevette una lettera di trasferimento in Veneto a causa sua. Mia madre non era molto materna. Ma avere una madre come lei è stata anche la mia fortuna. Non ho mai sofferto di mancanza d’amore. Ho dovuto sopportare delle prove dure sì, ma grazie a lei sono sempre stata molto vitale. Una giornata per lei era come un’avventura. L’ha pagata, nei momenti in cui sembrava non avere il controllo».

A Bologna sua madre la chiamavano «la moraccia», una donna carismatica e affascinante ma dal carattere difficile, dal quale Piera ha sempre desiderato essere amata e con cui ha condiviso i primi amanti ma anche tanti momenti difficili, come quelli in cui da bambina l’accompagnava a fare gli elettroshock negli ospedali di Bologna. Storie che tornano anche nell’omaggio che il regista sardo Peter Marcias ha voluto farle lo scorso anno con il documentario Tutte le storie di Piera. In cui, tra l’altro, prendono la parola molti dei registi che l’hanno diretta, da Bellocchio a Tornatore, da Moretti a Lina Wertmuller. Ma il primo ad apprezzare le sue grandi capacità – prima ancora non solo dei registi cinematografici ma anche dei compagni di viaggio del teatro, da Antonio Calenda a Gigi Proietti, – fu Lucio Dalla.

«Io e Lucio a scuola insieme»

«Frequentavamo la stessa scuola elementare – ricorda- i maschi e le femmine erano in classi separate e lui era compagno di banco di mio fratello. Lucio aveva un carattere affascinante ed era già un bambino prodigio, cantava, ballava, amava travestirsi, aveva dei modi da attore. Poi crescendo io sono diventata bella, lui è rimasto piccolo e bruttino. Era innamorato di me, di mia madre, della mia casa. Ricordo quando andavamo in giro sui colli bolognesi con la lambretta. E poi quando ho iniziato a recitare ha cominciato a seguirmi nelle varie città in cui mi esibivo. Quando mi vide la prima volta sul palco era così emozionato che non riusciva a stare fermo sulla sedia. Anch’io lo seguivo nei suoi concerti e quando entravo nei camerini mi faceva sempre degli scherzi che aveva architettato prima. Abbiamo anche preparato delle serate insieme e poi sono andata ad abitare da lui. Mi ha sempre dato grande felicità. Lucio non era adatto a morire. Che faccia fece quella volta… quando per strada riconobbero in me il personaggio di Clelia di Tutti pazzi per amore, e non lui..una volta tanto!». Per Dalla Piera era una Dea. Lo si capisce anche dalla lettera inedita che pubblichiamo qui a fianco, lettera letta dalla stessa attrice durante la serata romana con Strabili e spuntata chissà da quale baule.

Da Proietti a Pasolini

Ma perché fare l’attrice? Soprattutto i primi anni non sono stati facili per Piera Degli Esposti, che ha dovuto collezionare un bel po’ di no prima di arrivare al successo. Ha lavorato a Roma, al Teatro dei 101 di Calenda, con Gigi Proietti, poi a L’Aquila con Aldo Trionfo e allo Stabile di Firenze con Tino Schirinzi. È Molly dell’Ulisse di Joyce, con la regia di Ida Bassignano, a rivelarla al grande pubblico. Dopo, tanto cinema: Moretti, Grimaldi, Torrini, i Taviani, Wertmüller, Mingozzi, Bellocchio e Pasolini, che di lei disse: «“Mi piace la tua faccia perché non è da attrice”… mi disperai, invece era un complimento». E pensare che Piera il cinema non l’amava. «Ero disinteressata, mi piaceva muovere il corpo e il cinema non mi permetteva di farlo. In realtà ho sempre continuato a fare teatro, cinema e televisione, anzi proprio quando a 64 anni ho deciso che non volevo più fare teatro il cinema mi ha cercata e non mi sono più fermata. Ho fatto lavorare la mia faccia proprio quando a quell’età in generale la faccia uno la difende».

I nuovi film e l’amata tv

E veniamo agli impegni più recenti. «Gli ultimi film a cui ho partecipato sono Leoni, una commedia di Neri Marcorè; In un posto bellissimo di Giorgia Cerere con Isabella Ragonese e Alessio Boni  e un film dell’esordiente Adriano Valerio, che verrà presentato a Venezia  nella settimana della critica e dove interpreto un personaggio che mi piace molto», il film s’intitola Banat e racconta la storia di un giovane agronomo. E poi c’è Marco Bellocchio «che nel suo nuovissimo Sangue del mio sangue ha inserito il personaggio di una madre terribile, che compare una sola volta. Per Bellocchio faccio sempre delle donne crudeli… Infine, proprio l’altro giorno abbiamo iniziato a girare le prime scene del nuovo film di Laura Morante, Assolo, in cui faccio la parte della psicanalista». Naturalmente c’è anche la tv: dal  12 aprile, per esempio, è partita la nuova serie di Rai Uno, La grande famiglia, dove e Piera Degli Esposti interpreta il ruolo di Serafina. Dunque, ancora tanto tanto lavoro. Mai nessuna rinuncia?  «Di recente sono stata costretta a dire due no con grande dispiacere. In fondo sono una pigra e quando mi è stato offerto di fare la parte della protagonista in un film straniero io mi sono fermata davanti all’inglese. Non me la sono sentita. E sempre l’inglese è stato l’altro motivo di rinuncia ad un altro lavoro che mi sarebbe piaciuto fare molto. Peccato».

Intanto si è fatta sera. La luce naturale nella casa di Piera Degli Esposti comincia ad aver bisogno di quella artificiale. Lei accende le lampade ed è come se quel tempo trascorso insieme avesse reso tutto ancora più familiare, più caldo. L’ultima confessione è quasi una richiesta d’aiuto: «Vorrei tanto interpretare un commissario di polizia! Credo di essere adatta, l’età è giusta. Riccardo Milani, per esempio, mi dirigerebbe benissimo. E poi io amo la televisione, perché entra nelle case». È ora di andare, Piera, è quasi notte lì fuori.

(l’Unità 31 luglio 2015) 

 

 

Io, la Piera e il mitico maestro Baldini 

Avevamo quasi gli stessi maestri, il mio era il maestro Baldini, la sua, nella terza elementare femminile, era la maestra Saccarelli. Quasi gli stessi perché erano marito e moglie ed insegnavano nella stessa scuola, l’Istituto Giovanni pascoli che era all’angolo con via Rialto.

Il maestro Baldini aveva una passione per me che ero indisciplinato, furbo e bugiardo: mi diceva sempre che da grande avrei fatto l’attore e mi raccontava che gli attori, anche quando erano buffi, tenevano in mano il mondo e potevano rappresentarlo, pure se gli bendavano gli occhi, e la gente gli credeva, però bisognava studiare, sapere i verbi, tutti o quasi, soprattutto i congiuntivi, sapere anche le capitali del mondo così si recitava meglio e tutti quelli che ascoltavano ci avrebbero creduto.

La Piera, che a otto anni era già un’attrice, era la regina della classe ed era il piccioncino della Saccarelli che le insegnava le poesie e anche, mi sembra, come dirle e come muovere le mani.

Finita la scuola io l’accompagnavo a casa perché abitava vicino, insieme a suo fratello che era in banco con me, e le raccontavo le cose che avevo visto uscire quella mattina dalla bocca del mio maestro Baldini: e di Giulio Cesare e di suo figlio Bruto che lo aveva ammazzato e delle idi e delle sterminate pianure della steppa e del cuore che nel suo piccolo era come una macchina, ma nel suo grande era molto, molto più potente, e dei sogni che anche di giorno si possono fare ad occhi aperti , con la fantasia che è molto ma molto ma molto più importante del denaro e che più della fantasia e del denaro è importante l’onore.

Sono passati più di cinquant’anni e io sono Lucio Dalla ma non sarei diventato così se non avessi avuto con me quello strano mago che era il maestro Baldini e Piera, nella parte sinistra della scuola, non sarebbe diventata forse Piera Degli Esposti, una delle più grandi attrici italiane di sempre, se non avesse avuto la Saccarelli che le metteva in mente la voglia di scoprire cosa c’era dall’altra parte del mare.

Lucio Dalla 

Marthaler se la ride e Venezia applaude

04 martedì Ago 2015

Posted by francescadesanctis in Teatro

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biennale, marthaler, venezia, weisse

Siamo così poco abituati a vedere cosa combinano i registi stranieri nei loro teatri che, in quelle poche occasioni in cui arrivano in Italia – per esempio a Venezia per la Biennale Teatro come in questi giorni (fino al 9 agosto) – di fronte allo spettacolo di Christoph Marthaler verrebbe da dire: caspita, l’ha fatto! Cosa? Riuscire a far ridere, e con intelligenza. Ridere come facevano i film muti, ridere come sapeva fare Chaplin o Keaton, giocando soprattutto con i gesti, i ritmi, i silenzi. Che sono tanti in questo Das Weisse vom Ei/Une île flottante, lo spettacolo che ha aperto l’edizione 43 del Festival Internazionale di Teatro, la pièce diretta dal regista svizzero al quale quest’anno è andato il Leone d’oro alla Carriera «per la ricerca di un linguaggio personale. Per il suo lavoro musicale in spettacoli in cui apparentemente la musica non appare. Per il suo senso dell’umorismo  sempre intelligente che permette di unire tragedia, dramma e commedia in un unico mondo. Perché ci fa sognare da svegli. Per la fantastica creazione in spazi scenici unici creati in collaborazione con l’immancabile Anna Viebrock, una delle migliori scenografe della storia del teatro. Per la sua capacità di porre davanti a uno specchio la società europea lasciando che osservi la miserie e la meschinità dell’umanità che ci caratterizza e che ci sa raccontare così bene». Cristoph Marthaler è imprevedibile. Non sai mai cosa aspettarti ed è così anche dopo ogni lunga pausa presente in Das Weisse vom Ei/Une île flottante, dove la comicità arriva all’improvviso con un semplice gesto: una smorfia della signorina Emmeline, un atteggiamento goffo di Frédréic, una mano insanguinata o una piuma da afferrare come farebbe un bambino. E il titolo (che si potrebbe tradurre in “Isola galleggiante”) allude all’atmosfera annoiata che si respira in un interno borghese, dove due fidanzati e le rispettive famiglie devono presentarsi e conoscersi in vista delle nozze. Atmosfera annoiata e sospesa per loro, comica per noi, è evidente. Per qualche istante, vedendolo, ho ripensato a Cechov, a quell’ozio di cui il drammaturgo russo ci ha tanto parlato divenuto qui spunto per evidenziare il ridicolo, il miserrimo, tanto più che le due famiglie in scena appaiono così piccole da esagerare o mentire sulle proprie ricchezze pur di fare colpo sugli altri. Non è il ritratto della buona borghesia di un’epoca, dunque, contrariamente a quanto ci si più aspettare da un primo colpo d’occhio alla scenografia ideata dalla Viebrock, che ha allestito un salotto decorato da grandi quadri e animali imbalsamati dove una società tipicamente labichiana viene smascherata e derisa. Forse siamo noi. Gli attori in scena? Semplicemente straordinari. Ogni personaggio è costruito alla perfezione ancora prima di aprire bocca. Anzi, senza la necessità di aprire bocca. Perché basta guardarli ed hai già capito tutto: quella spalla tirata su, o la boccuccia all’infuori, la camminata goffa o le scarpe rosse, tutto parla senza l’uso delle parole in Marthaler, che riesce a farci ridere dopo una canzoncina cantata in coro dagli attori o davanti ad una sedia che si rompe. Con effetti sempre sorprendenti e con uno stile unico. (l’Unità, 03 agosto 2015)

Serrano, Leone d’argento: “Il nostro western teatrale a caccia di Osama”

03 lunedì Ago 2015

Posted by francescadesanctis in Teatro

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argento, asia, biennale, house, leone, serrano, teatro

Ci siamo. La Biennale di Venezia. Festival Internazionale del Teatro – alla sua edizione numero 43 e con la direzione di Àlex Rigola  – si prepara ad offrire al pubblico della città lagunare la sua passerella di spettacoli internazionali, ben 15, che dal 30 luglio al 9 agosto apriranno una riflessione a più voci sul nostro presente. Tocca a Christoph Marthaler, Leone d’oro alla carriera 2015, inaugurare il Festival, che, fra gli altri, ospita Thomas Ostermeier, Fabrice Murgia, Falk Richter, La Zaranda, Milo Rau, Christiane Jatahy, Jan Lauwers, Oskaras Koršunovas, Lluís Pasqual, gli italiani Antonio Latella e Romeo Castellucci e la compagnia Agrupación Señor Serrano, Leone d’argento per l’innovazione teatrale con A House in Asia, una sorta di caccia all’uomo, una storia di indiani e cow boys in cui la casa di Osama bin Laden diventa il contenitore di tutte le scene dello spettacolo, dalla Casa Bianca alle praterie dell’Afghanistan.

Ne parliamo con i tre componenti della compagnia, nata in Spagna nove anni fa da una storia di amicizia: «Noi siamo innanzitutto amici, con interessi per le arti performative, per il video arte, per il cinema, per la tecnologia, per le storie, per la vita. Ad un certo punto del 2006, quest’amicizia e questi interessi si sono ritrovati in una compagnia di teatro che ci permette di lavorare insieme mettendo in pratica le nostre passioni». Àlex Serrano, laureato in Industrial Design, ha fondato la compagnia dopo aver lavorato nel marketing multimediale. Subito dopo lo hanno raggiunto Pau Palacios, laureato in Sociologia, e nel 2008 Barbara Bloin per rafforzare le funzioni amministrative e di produzione. «Ma in tutto questo tempo niente sarebbe stato possibile senza la complicità stabilita con tutti i nostri assidui collaboratori: performer, autori, light designers, costumisti, musicisti, ecc…».

Nella costruzione dei vostri spettacoli, qual è la cosa che più vi sta a cuore: la storia o il modo di raccontarla?

«Per noi è impossibile fare questa differenza. Una storia senza un modo particolare di essere raccontata non è niente. E un modo di raccontare senza una storia forte, neanche. Ma per noi conta anche con quali mezzi (tecnici ed economici) raccontare una storia. I nostri spettacoli si appoggiano saldamente su queste tre domande: cosa raccontare? in che modo? con quali mezzi? Abbiamo avuto la (s)fortuna di crescere come compagnia all’ombra di una crisi economica ed istituzionale senza precedenti in Spagna e nel mondo e quindi ci siamo dovuti adattare. Fare diversamente sarebbe stato irresponsabile e suicida».

Parliamo di “A house in Asia”: è una specie di western teatrale… ma l’uomo a cui date la caccia è Bin Laden, come vi è venuta questa idea?

«In realtà non ci è venuta in mente, ma la realtà ce l’ha portata. Quando la CIA ha sviluppato il piano per attaccare la casa dove si nascondeva Bin Laden in Pakistan ha avuto la infelice idea di soprannominare Bin Laden nel modo più sbagliato possibile: Geronimo. Quindi, quando hanno ucciso il leader di Al Qaida i Navy Seal hanno detto per radio “Geronimo is down”. Chi vive in un’eterna mentalità di western non siamo noi ma le forze armate e l’intelligence americane: i buoni contro i cattivi, la civiltà contro i barbari. A partire di questo fatto, noi abbiamo trasformato tutta la vicenda in un western».

La casa: ce ne sono almeno tre in scena…

«Quando abbiamo scoperto che c’erano due copie della casa di Bin Laden (una per l’allenamento all’attacco dei Navy Seals e un’altra per il film “Zero Dark Thirty”) ci siamo chiesti se le copie della casa non erano, in realtà, più reali dell’originale stessa. Così, tutto lo spettacolo è basato sull’idea della copia, dello specchio, su come la finzione diventa l’unica realtà possibile, su come la logica della caccia a Geronimo è un riflesso di quella a Bin Laden ed è un riflesso anche di quella a Moby Dick (sì, la balena bianca), su come Bush, Bin Laden o quindi il capitano Ahab sono dei riflessi contorti di uno stesso modello, su come tutte le vittime sono un riflesso le une delle altre, sull’assenza di un originale».

Anche la storia viene raccontata su tre livelli (modellini, attori, proiezioni): sembra quasi un gioco, è così per voi?

«In effetti, nonostante la crudezza degli argomenti che trattiamo, la nostra proposta è sempre in apparenza ludica, è piacevole da vedere.  Noi ci presentiamo come tre uomini che non hanno perso la voglia di giocare, ma che giocano a cose molto serie. I tre livelli che presentiamo sono anche riflessi imperfetti l’uno dell’altro e i nostri spettacoli non si possono capire se non vedi tutti e tre i livelli insieme. È lo sguardo e la testa dello spettatore a completare lo spettacolo».

Vista dalla Spagna come sta l’Italia? 

«Abbiamo un infiltrato in Italia perché Pau Palacios abita in Alto Adige da dieci anni. Comunque, l’impressione è che l’Italia sia uno dei Paesi al mondo che più somiglia ai luoghi comuni che si dicono su di lei, sia in positivo che in negativo. Per quanto riguarda il teatro, ci sembra che in Italia ci sia una forte tradizione legata al testo e anche una forte tradizione naturalista, con poco spazio per la sperimentazione dei nuovi linguaggi. Ma c’è anche la forza creativa di chi vuole andare oltre i confini del mainstream, con poetiche e estetiche molto particolari, definite e potenti. C’è in Italia una consolidata rete di centri di creazione dedicati alla cultura contemporanea, che in Spagna non esiste. E c’è in Italia, come in Spagna, un attacco diretto, politico e ideologico a qualsiasi tipo di cultura scomoda. In effetti, quest’anno dovevamo presentare il nostro lavoro in due festival italiani che all’ultimo momento sono saltati per mancato sostegno economico, quindi politico. Fare teatro contemporaneo nel sud d’Europa è sempre più difficile».

(l’Unità, 29 luglio 2015)

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