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Colpo di scena

~ di Francesca De Sanctis

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Le sette vite di Paolo Poli

01 mercoledì Nov 2017

Posted by francescadesanctis in cultura, Teatro

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luzzati, mostra, poli

Entrando in casa di Lucia Poli, è la prima cosa che rapisce lo sguardo: i colori. Il rosso, il giallo, il blu sono quelli dei bozzetti di Lele Luzzati realizzati per gli spettacoli di Paolo Poli, scomparso a 86 anni poco più di un anno e mezzo fa, il 25 marzo del 2016.

Paolo l’amabile, Paolo il birbaccione, Paolo il genio, Paolo l’istrione… e potremmo continuare con altri 500 aggettivi circa fino alla lettera Z, come suggeriscono le parole scritte sui monitor delle vecchie tv accatastate nella mostra Paolo Poli è…, dal 22 ottobre al 6 gennaio nel foyer del Maggio musicale fiorentino, un percorso lungo i sessant’anni di carriera teatrale, a cura del compositore Andrea Farri, figlio di Lucia, e del critico teatrale Rodolfo Di Giammarco (in collaborazione con Mibact, Comune di Firenze, Maggio musicale fiorentino). Sarà una specie di album da sfogliare, fatto di fotografie quasi tutte inedite, locandine, spezzoni di spettacoli e interviste, bozzetti di scena e di abiti.

“Ci piaceva l’idea di una mostra che mettesse in primo piano il corpo di Paolo, ecco perché ci saranno soprattutto i video”, spiega Lucia Poli, che con lui condivideva il grande amore per il teatro. “Sono 11 anni più giovane –  continua  – e quando ero bambina mi affascinava questo fratello così divertente e fantasioso, che mi raccontava dei film e mi portava a vedere i  primi spettacoli. Lui mi tagliava i capelli, mi faceva i ritratti, mi vestiva con abiti scozzesi. Sono vissuta in una famiglia numerosa, eravamo 5 figli ed io ero la più piccola. Con Paolo crescendo ho maturato gli stessi interessi. Prima l’insegnamento, poi il teatro. E pensare che all’inizio non volevo seguire le sue orme. Poi ho cominciato a collaborare con la Rai e a frequentare Roma, che all’epoca trovavo una città molto viva e interessante. Ho conosciuto Pasolini, Moravia, Laura Betti. E ad un certo punto Paolo mi ha chiesto di lavorare insieme. All’inizio ho avuto paura, ero dubbiosa, sentivo il peso del confronto. Lui era molto più esperto, quindi inizialmente è stato difficile, ma con il tempo ho capito che il confronto doveva essere solo con me stessa. Ognuno di noi ha maturato un suo percorso. Lui aveva una personalità forte ed ha inventato un stile unico e irripetibile”.

E proprio quel suo stile “unico ed irripetibile” rivivrà nella mostra che ripercorre 40 spettacoli, da Il mondo d’acqua a Sei Brillanti, da Rita da Cascia a Magnificat. “Ho riordinato e restaurato circa 500 fotografie di scena dell’archivio personale di mio zio” ci racconta Andrea Farri. Gli abiti e le scene, invece, sono ancora conservati in un magazzino, “tranne due-tre grandi scenografie realizzate da Lele Luzzati e Lorenzo Tornabuoni che caleranno dall’alto nel foyer”, aggiunge.

“Ho capito subito che nella vita avrei fatto un lavoro artigianale, in modo da usare non solo l’intelletto, ma anche il corpo”, racconta Paolo in un’intervista. E ci sembrerà di rivederlo quel corpo, spesso en travesti. Era bellissimo, “ma di una bellezza effeminata, ecco perché ha fatto poco cinema – ricorda la sorella  – negli anni Cinquanta andava di moda l’uomo macho, lui al massimo avrebbe potuto fare un pretino”. Quando Fellini gli offrì una parte in 8 1/2 però la rifiutò, “gli impegni teatrali erano troppi”. Dopo i primi successi non si è più fermato, la sua vena poetica e surreale ha fatto innamorare il pubblico, che se vorrà potrà riascoltarlo nel video inedito tratto dal recital Mezzacoda. Risuonerà per tutto il foyer, mente la sua immagine gigante se la riderà dall’alto.

(Il Venerdì di Repubblica, 27 ottobre 2017)

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Capossela, rivoluzione alla rovescia

24 giovedì Ago 2017

Posted by francescadesanctis in cultura

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capossela, irpinia, sponz

La sigla dello Sponz Fest, il piccolo ma prezioso festival che da cinque anni Vinicio Capossela dirige nella sua amata Irpinia e che quest’anno si svolgerà dal 21 al 27 agosto, spiega tutto: è una versione a rovescio dell’Internazionale. Sì, avete capito bene. Un giovane ingegnere di Parma, Antonio Pompò,  ha ribaltato musica e parole dell’inno comunista ed è proto a partecipare alla Gran Parata del ’17, il concerto del 27 agosto che sarà animato da Vinicio Capossela, Emir Kusturica & The no smoking orkestra e dalla fanfara Dobranotch da San Pietroburgo.

Nel centenario della rivoluzione russa, dunque, Vinicio Capossela tenta un gesto rivoluzionario: sperimentare il rovesciamento del mondo. Al grido di “All’incontre’R – Rivoluzioni e mondi al Rovescio”, il nuovo filo conduttore per questa edizione 2017 dello Sponz Fest, in programma a Calitri e in Alta Irpinia, è un punto di vista diverso sul mondo. E ovviamente, anche il programma scorrerà al contrario: dall’evento di chiusura il secondo giorno a quello di apertura l’ultimo, dopo una prima giornata, il 21 agosto, in cui non succederà nulla, momento di riposo dopo la creazione come nella domenica biblica. “All’incontrè è il grido di battaglia delle quadriglie comandate durante lo sposalizio a cambiare il giro di danza. Una piccola rivoluzione, per ricominciare dall’inizio. Che poi è quello che dovremmo fare oggi, sempre, per cambiare un po’ il punto di vista sul mondo e il mondo stesso”, spiega Capossela, che tra gli ospiti del suo Festival quest’anno avrà anche lo scrittore Erri De Luca, il liuto di Georgos Xilouris coni tamburi di Jim White, il cofondatore dei CCCP Massimo Zamboni, Ermanna Montanari del Teatro delle Albe… E pensare che cinque anni fa tutto partì dalla ritualità dello sposalizio come tradizione popolare. “Be’, in fondo lo sposalizio non è forse la rivoluzione più grande nella vita di una persona?”, scherza il cantautore, che ci racconta di questo ed altri progetti.

Vinicio facciamo un gioco: iniziamo questa intervista a rovescio. C’è qualcosa, per esempio, che non le viene mai chiesto durante le interviste e che invece vorrebbe tanto raccontare?

(Ci pensa un po’ prima di rispondere…, ndr) Il punto di vista di Polifemo per esempio… voglio dire che nessuno mi chiede mai, per esempio, perché ho scritto la canzone Vinocolo… cosa volevo dire? E’ una canzone che parla dell’ubriacatura del Ciclope, quindi del suo punto di vista e non di quello di Ulisse, al quale siamo, invece, abituati. Per il Ciclope Ulisse è un uomo piccolo che lo ha vinto con il vino. Tutto questo per dire che certe canzoni possono sembrare delle stranezze, ma in realtà raccontano semplicemente un altro punto di vista.

Girare all’incontrario, appunto. Come lo Sponz e in generale come ha sempre tentato di fare la sua musica, che sfugge ad ogni regola…

La mia musica è fuori dalla contemporaneità. Segue tempi diversi. Quando si è giovani si parla di amori, di viaggi, di delusioni, poi invece si comincia a parlare di Dio, del senso delle cose e della sete di apprendere. Però sono fondamentali per me Omero, Dante e la Bibbia, per il resto seguo le passioni del momento, che poi non è detto coincidano con i temi dell’attualità. Ma per il mito c’è sempre spazio, non si esaurisce mai.

Nel mondo in cui viviamo è ancora possibile cambiare punto di vista?

E’ possibile far girare le cose per sé. La rivoluzione parte dal singolo. Ognuno di noi è responsabile del proprio punto di vista.

Singoli e collettività… una delle caratteristiche dello Sponz è che c’è tanta voglia di costruire una comunità e farlo proprio partendo da un luogo in via di desertificazione come l’Irpinia credo sia particolarmente bello e stimolante.

Tutto nasce per fare comunità. Fare cose significa fare esperienza, che è opera di molti. Anche chi sceglie di dormire in certi luoghi incontra chi certi luoghi li vive o li abita, nel ricordo. Itaca in fondo la ritroviamo nei frammenti di molti. E lo Sponz ha senso solo lì, in quei posti, che  possono essere anche faticosi, ma solo gli unici in cui si può creare il senso di comunità. Tutto questo pur non avendo dietro la struttura che hanno in genere i Festival, cioè le risorse economiche. Qui tutto si basa sullo scambio di opere e di fiducia.

Cosa la attira tanto dell’Irpinia, che in qualche modo torna sempre, anche nelle sue canzoni?

L’Irpinia per me è coma Macondo per Marquez. Non ci sono nato, né vi ho mai vissuto eppure per me quella terra è sempre stata un luogo speciale. Per esempio, sono felicissimo che allo Sponz quest’anno ci sarà anche Emir Kusturica perché i suoi film, pur non essendo ambientati lì, sono impastati di quella terra, di un’altra epica. Senza i suoi film, non avrei mai guardato a quei luoghi nello stesso modo. In fondo i Balcani, la Grecia, e certe zone d’Italia si assomigliano molto. E le persone di quelle zone, con tutti i loro difetti, sono straordinarie.

Cosa si prova ad ascoltare musica o a suonare all’alba?

Ascoltare musica mentre il sole si leva è un’esperienza unica. E anche cantare in un luogo piuttosto che in un altro non è la stessa cosa. La musica ha una potenza incredibile…

La scelta dei luoghi non è mai stata casuale per lei, anche nei suoi “Atti unici e qualche rivincita” si esibisce in luoghi diversi, dalla Basilica di Santa Maria delle Sanità di Napoli al Rifugio Gilberti di Sella Nevea a Tarvisio (Udine)…

Gli “Atti unici” non sono date di una vera e propria tournée, ma esercizi per contrastare la ripetizione. Che nella pratica si traducono nell’incontro fra diverse discipline: ci sono dei duetti, c’è una lettura dell’Odissea, c’è l’Orchestra Sinfonica… Pesco nel passato, faccio tesoro dei tanti anni di carriera e ne approfitto per organizzare nuovi incontri con vecchi compagni di viaggio o con avventurieri freschi d’incontro.

Sta scrivendo nuovi libri?

Ne ho già pronto uno, è un libro di lunga durata che raccoglie storie dal mondo dello spettacolo. Ma  per ora non è in via di pubblicazione.

E anche un nuovo album…

Ho delle nuove canzoni. Ma non pubblicherò album. Dopo tanta pienezza mi prenderò un anno per stare fermo, voglio nutrirmi del vuoto.

(Il Manifesto – Alias, 19 agosto 2017)

Anche gli asiatici ricchi piangono (ma non troppo)

23 mercoledì Ago 2017

Posted by francescadesanctis in cultura

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asiatici, kwan

Chiudete gli occhi e provate ad immaginare per un attimo come sarebbe la vostra vita da miliardari. Osate, osate liberamente. Bella, vero? Almeno una volta l’abbiamo sognata tutti. Ma ci avete mai pensato davvero? Prendiamo un giovane cinese, per esempio, uno di quelli che fanno parte del jet set di Singapore, figlio ovviamente di una delle famiglie più in vista e più ricche di tutta l’Asia: non avete idea di che razza di vita conducano.

In quel mondo aristocratico, dove perfino i sentimenti sono una questione di denaro, ci accompagna Kevin Kwan, autore di Asiatici ricchi da pazzi. La fidanzata cinese (che segue Asiatici ricchi da pazzi, presto al cinema). Il libro racconta la storia di Rachel Chu, una cinese americana che sta per sposare lo scapolo d’oro Nick Young, deciso a prenderla in moglie pur non essendo lei all’altezza del suo patrimonio. Ma d’un tratto tutto cambia grazie ad una scoperta: Rachel è la figlia illegittima di un noto uomo politico di Pechino, Gaoliang  Bao, erede di una delle principali aziende farmaceutiche cinesi. La giovane coppia, quindi, parte per Shangai, dove incontrerà il vero padre della sposa, la madre Shaoyen e il fratello Carlton. Ma il viaggio – movimentato e pieno di colpi di scena – sarà soprattutto l’occasione per conoscere un’èlite asiatica squallida e superficiale. Colette Bing, la fashion blogger innamorata di Carlton, dice a Rachel: “Tutti i soldi del mondo non ti permetteranno di avere il mio stile e il mio gusto perché tu sarai sempre una donna comune. Una comune, piccola bastarda!”. Questo non vuol dire che non si rida, anzi, il romanzo è a tratti comico e pungente.

A metà fra la serie tv Sex and the city e Orgoglio e pregiudizio di Jane Austen (con l’aggiunta di un giallo finale), è un libro perfetto da leggere in spiaggia, che scorrerà veloce come l’estate. E se vi piacerà, sappiate che arriverà il terzo volume a chiudere la trilogia.

Asiatici ricchi da pazzi. La fidanzata cinese
Kevin Kwan
Traduzione di Vanessa Valentinuzzi
Mondatori
pp. 416
euro 20,00

(Il Venerdì di Repubblica, 18 agosto 2017)

Paco Ignacio Taibo II: “Quando sono in Italia divento garibaldino”

15 lunedì Mag 2017

Posted by francescadesanctis in cultura

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encuentro, pacp, taibo

Incontenibile, irriverente, partigiano. Ma soprattutto, geniale. I suoi lettori lo amano anche per questo. E ogni volta che arriva in Italia è una festa. Mentre parliamo con Paco Ignacio Taibo II, lui si gode il sole seduto in un bellissimo giardino di Perugia, una pausa sigaretta (o meglio sarebbe dire sigarette vista la quantità di fumo…) con Lorenzo Ribaldi, editore de La nuova frontiera, che sta ripubblicando i suoi libri. L’ultimo è L’ombra dell’ombra – romanzo storico dall’atmosfera alla Chandler con qualche tocco di realismo magico – che proprio ieri ha presentato durante un incontro nell’ambito del festival di letteratura ispano-americana (“Encuentro”, in programma fino a oggi).
Paco, facciamo un gioco. Immaginiamo che non sia io qui ad intervistarla, ma che al mio posto ci sia Manterola, il cronista di nera, protagonista del suo romanzo “L’ombra dell’ombra”. Secondo lei, cosa le chiederebbe?
«Ummh…. cosa mi chiederebbe (ci pensa un attimo, ndr). Secondo me sarebbe interessato a sapere come faccio a conciliare la mia vita da attivista politico con quella di scrittore e vorrebbe anche chiedermi perché scrivo tanto di notte. Manterola è un giornalista molto famoso in Messico, ha fatto grandi interviste, ha intervistato perfino Mussolini».
Le faccio la domanda inversa, ora. Lei che ama molto il mondo del giornalismo – e lo si intuisce dalla quantità di volte in cui la vita di redazione entra nei suoi romanzi – quale personaggio avrebbe voluto incontrare se fosse lei l’intervistatore?
«La lista sarebbe molto molto lunga… Provo a dirne solo alcuni. Mi sarebbe piaciuto moltissimo intervistare Sciascia, per parlare con lui di potere. E anche Calvino, in particolare avrei voluto chiedergli del suo primo romanzo, Il sentiero dei nidi di ragno. E poi sarebbe stato bellissimo intervistare tutti i garibaldini che hanno combattuto in Spagna. Ma dico proprio tutti, eh. Infine, la mia grande intervista l’avrei fatta a Spartaco, che non era italiano e che è stato sfanculato dai romani. Certo, avrei dovuto parlargli in latino, e non sarebbe stato proprio semplice, ma con un po’ di fantasia un modo l’avrei trovato… ».
Con la fantasia si può fare tutto. Perfino cambiare la realtà. In fondo è quello che fa la letteratura… la scrittura da questo punto di vista è “rivoluzionaria”, è d’accordo?
«Be’ sì. Con la fantasia si può fare tutto, è vero, ed è l’unica risorsa che abbino per cambiare la realtà. La scrittura più che rivoluzionaria la trovo alchemica».
A proposito di rivoluzione e interviste, cosa avrebbe chiesto a Che Guevara, al quale lei ha dedicato una biografia (“Non perdere la tenerezza”)?
«Tutte domande che avrei voluto fargli sono contenute in quel libro. C’è una cosa, però, che avrei voluto chiedere agli eredi: perché non hanno mai pubblicato i diari scritti nel periodo in cui lui era ministro? Mi piacerebbe tanto saperlo».
Perché ha scelto di raccontare la sua storia?
«Se sei un bambino cattolico, ed io non lo sono stato, la tua vocazione è scrivere la biografia di San Francesco. Io sono stato di sinistra per tutta la vita, i miei riferimenti per raccontare la storia sono stati due: Che Guevara e Ho Chi Minh, ma ho scelto di scrivere del primo perché non conosco la lingua vietnamita, anche se è un’idea alla quale non ho ancora rinunciato quella di raccontare di Ho Chi Minh. Anzi sicuramente scriverò una storia narrativa partendo da questa domanda: lui che era un grande fumatore, da dove prendeva le sigarette quando era in carcere?».
E qui torniamo al fumo… e quindi a Perugia. Come sono andati gli incontri?
«Oh benissimo, ma qui vedo cose sempre più strane… non ho ancora detto ai perugini che sono affascinato dal grifone che ho scoperto nel Palazzo dei notari. Qui c’è una piccola statua di un grifone che si sta facendo un maialino…. Ora capisco l’amore dei perugini per grifoni e maialini. In realtà da anni sto dando la caccia al Leone della Serenissima di Venezia, che mi interessa per diverse ragioni: intanto vorrei capire perché un logo assiro è simbolo di Venezia; e poi mi attrae la parola stessa “Serenissima”; e non capisco perché una Repubblica militare decida di prendere questo nome… Ho già scritto 15 pagine su questo argomento, in verità».
L’Italia, comunque, continua ad affascinarla…
«L’Italia tira fuori il meglio e il peggio di me stesso. Quando sono qui divento un anti neoliberale, divento un garibaldino. Anzi da 20 anni sto facendo una crociata affinché tutte le statue di garibaldini in Italia portino il poncho rosso».
E cosa altro ha scritto di nuovo?
«Due libri. Uno è appena uscito in Messico, sulla rivoluzione liberale messicana, simile al vostro Rinascimento. L’altro è uno dei cinque romanzi che ho iniziato a scrivere e che uscirà a fine anno».
Ma quando trova il tempo per scrivere così tanto?
«Quando inizio posso scrivere anche per 8-10 ore di fila…».
Spaziando da un genere all’altro…
«Sì ma questo è un fenomeno letterario controllato. Io sono sempre uno. Sia quando scrivo, sia quando vivo. Sono sempre Paco».

(l’Unità, 14 maggio 2017)

Laura Morante si racconta, dal crudele Carmelo Bene all’ostinazione di Nanni Moretti

01 mercoledì Mar 2017

Posted by francescadesanctis in cinema, cultura, Teatro

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bertolucci, locandiera, morante, moretti

Laura Morante, 60 anni tondi tondi e sempre bellissima, è parecchio indaffarata in questo periodo. Recita, scrive, poi ci sono i figli (due femmine e un maschio, adottato una decina di anni fa), ma chiacchiera molto volentieri dei suoi impegni e dei suoi incontri, di registi tanto amati e di altri tanto odiati, di politici prepotenti e di produttori tutt’altro che liberi, di cinema e di teatro. «Non ho mai amato fare tournée teatrali per via dei figli – ci confessa – In questo caso almeno un pezzetto di famiglia me lo porto dietro». Parla dello spettacolo Locandiera B & B di Edoardo Erba, regia di Roberto Andò. Con lei sul palco del Teatro Ambra Jovinelli di Roma in questi giorni (fino al 5 marzo) c’è anche una delle sue sua figlie, Eugenia Costantini. «E c’è anche la figlia del regista», aggiunge. «Mi fa molto piacere condividere la tournée con Eugenia, è sempre così difficile trovare del tempo per stare insieme. Da quando anche lei ha scelto di intraprendere questo tipo di carriera ci scambiamo spesso opinioni, ci confrontiamo».
E come è andato, secondo voi, questo debutto romano?
«Sembra sia andato bene. Ma, sa, in camerino vengono a trovarti solo le persone a cui lo spettacolo è piaciuto…».
Cosa centra “La locandiera” di Goldoni con il testo di Edoardo Erba?
«In realtà è solo uno spunto, anche se poi a causa di certe alchimie i due testi si raggiungono. Certo, i due personaggi – Mira e Mirandolina – si assomigliano, ma solo in parte. Mirandolina è un’astuta manipolatrice che nel ‘700 deve cercare di mantenere intatta la sua reputazione, Mira, invece, è un’albergatrice moderna che all’inizio è impacciata ma poi riesce a trovare la via giusta. Il testo è molto divertente, è una specie di thriller moderno alla Agatha Christie, qualcuno ha detto, ma io non lo so perché di Agatha Christie ho letto solo i libri, non ho mai visto i film».
Il testo è stato scritto su misura per lei, è stato difficile arrivare alla stesura finale?
«Ci sono stati vari passaggi. Io e Roberto Andò – con il quale avevo lavorato nello spettacolo The Country di Martin Crimp – cercavamo un testo fruibile e giocoso. Avevamo letto tanti altri testi ma nessuno, per vari motivi, ci aveva convinto. Poi con Erba si pensò ad una Locandiera in chiave moderna. La prima versione era più vicina a quel testo, ma poi c’è stata una seconda versione fino ad arrivare alla stesura attuale. La decisione di Andò di farmi recitare in toscano ha comportato una nota umoristica. Immediatamente, quindi, è prevalso un tono meno serioso e naturalmente io, essendo toscana, mi sono sentita molto a mio agio».
Fu Mario Monicelli ad accorgersi per primo della sua vena comica…
«Rilasciò un’intervista in cui parlava di varie attrici. E di me disse “mi piace la sfumatura comica dei suoi personaggi”. Io lo presi come un grande elogio. Non credo ci sia tragico senza comico né viceversa».
È vero che Carmelo Bene la rinchiuse in teatro?
«Oh sì, è verissimo. Carmelo era uno strano personaggio, era come quei bambini crudeli che tagliano la coda alle lucertole ma sono privi di cattiveria o meschinità. A volte torturava le persone. Io fui prestata a lui dalla compagnia di danzatori di cui allora facevo parte. Lui lavorava di notte, mentre io avevo bisogno di dormire. Ecco, lui mi impediva di dormire. È stato per me un periodo da incubo».
E dopo l’esordio teatrale con Carmelo Bene, all’improvviso tanto tanto cinema.
«Il cinema è arrivato per caso. Per un po’ ho fatto piccole cose teatrali, era il periodo in cui frequentavo il gruppo formato da Donato Sannini, Carlo Monni, Roberto Benigni, Giuseppe Bertolucci… il primo film lo feci proprio con lui, con Giuseppe (Oggetti smarriti, 1980)».
E poi lavorò anche con suo fratello Bernardo (“La Tragedia di un uomo ridicolo”, 1981)…
«Eh sì. Lui era stupito della mia ignoranza in campo cinematografico. Gli sembrava che prendessi le cose poco sul serio. Durante il trucco ricordo benissimo che io e Victor Cavallo ci lanciavamo le molliche di pane… Bernardo aveva fatto tanti provini prima di scegliere me e credo l’avesse fatto proprio perché io non mostravo tutto questo interesse… la cosa lo incuriosì e mi prese».
Ci racconti dell’incontro con Nanni Moretti, il regista con cui ha lavorato di più insieme a Pupi Avati.
«Io e Nanni ci siamo conosciuti da ragazzi. Quando ho iniziato a lavorare con Pupi Avati, invece, ero già una professionista. Nanni era un grande appassionato di Bernardo Bertolucci e venne a vedermi. Siamo ancora oggi buoni amici per come si può essere amici con Nanni. Quando decide di condannarti all’ostracismo non c’è niente da fare… poi magari all’improvviso riprende i contatti riammettendoti nella sua cerchia. Quando volle farmi recitare in Sogni d’oro io ero una studentessa, ed ero incinta di sei mesi! Perciò fu anche un po’ complicato coprire la pancia. Ma lui era molto ostinato e spesso in contrasto con i produttori. Io non piacevo mai ai produttori. Per Bianca, per esempio, il produttore non mi voleva “né morta né viva”, disse. Nanni invece insisteva col dire che io ero quella giusta. Il produttore continuava a dire: “prendi chi vuoi, ma non lei”. Ecco una dei grandi insegnamenti che mi porto sempre dietro – utili soprattutto quando mi sono ritrovata dietro la cinepresa (due i film girati da regista: Ciliegine e Assolo) – è questo: bisogna avere capacità di ostinazione. Un buon regista deve saper distinguere quando è il caso di rinunciare e quando non lo è. C’è stato un periodo in cui le idee dei produttori erano fortemente influenzate dalla politica».
Ne ha mai pagato le spese direttamente?
«Una volta un regista di cui non farò il nome mi disse: “non posso prendere te perché devo prendere l’amante di Craxi”. Lo ricordo come un periodo in cui la politica aveva un influsso nefasto sul nostro mestiere. Quel cinismo, quell’arroganza, neppure nel periodo del berlusconismo ha raggiunto picchi di quel livello. Col tempo per fortuna le cose sono migliorate. Mi ricordo un regista francese, mio amico, che venne in Italia a fare provini e mi disse: “in due giorni ho visto solo amanti”. Per un periodo ho vissuto in Francia anche per questo motivo. Era tutto troppo complicato, tutto disonesto. La “questione morale” di Berlinguer era davvero urgente in quel momento. Abbiamo avuto Mafia capitale, è vero, ma quell’arroganza lì non l’ho più ritrovata. Le faccio un altro esempio: abitavo a Monteverde e dovevo cambiare casa, rimanendo nello stesso quartiere. Chiesi se potevo mantenere lo stesso numero. L’impiegata mi disse di sì, ma che sarebbero serviti due anni per trasferire il numero, a meno che non avessi avuto una raccomandazione».
Parliamo di donne. Ne ha interpretate tante e diverse, qual è quella che più le somiglia?
«Io cerco sempre di trovare un punto di incontro con ogni donna che interpreto, una via. Questo non vuol dire che finisco per assomigliare a tutte le donne che interpreto, ma che bisogna trovare un contatto, sempre».
Invece ha lavorato poco con registe donne.
«Sì poco, Cristina Comencini, Francesca Archibugi….».
A proposito di donne, che ricordo ha di sua zia Elsa Morante?
«Era una donna dall’influenza fortissima. Per un periodo sono stata la sua nipote prediletta, ma poi sono stata allontanata perché io la notte ero sonnambula. Quindi fui rispedita a casa. Comunque ricordo che mi incuteva molto timore. Era una donna dura, mi spaventava. Ricordo anche che era una donna generosa, a Natale si presentava sempre carica di regali ma la sorte avrebbe dovuto decidere a chi sarebbero dovuti andare. Poi noi di nascosto ce li scambiavamo».
I suoi progetti per il futuro?
«Intanto devo finire la tournée teatrale. Poi farò un film con un giovane regista, Capasso. E scrivo racconti… Elisabetta Sgarbi alla fine mi ha convinta: pubblicherò per la Nave di Teseo la mia prima antologia di racconti. Sono cresciuta in mezzo ai libri, scrivere mi è sempre piaciuto, vediamo come andrà».

 (l’Unità, 1 marzo 2017)

Stefano Cucchi, una serie tv per rompere il silenzio

28 martedì Feb 2017

Posted by francescadesanctis in cultura

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cucchi, tv

Il mondo della cultura e dello spettacolo accanto alla famiglia di Stefano: una onlus, una piéce teatrale e il progetto di Fandango
«Un drogato di merda. Un diverso. Un Corpo a perdere. Uno di quelli di cui si dice, nel gergo di certi sbirri, che abbiano il nome all’anagrafe scritto a matita. Perché cancellarlo è un attimo. E nessuno verrà a reclamare». Così scrive, di Stefano Cucchi, Carlo Bonini. Lo fa nel suo libro-inchiesta, Il Corpo del Reato (Feltrinelli), che presto diventerà una serie tv. Una vicenda orribile e vergognosa quella di Cucchi, che ha che fare con l’abuso di potere, con la violenza nelle carceri, con la fragilità dello Stato di diritto e con la tragedia privata, diventata sofferenza e dolore collettivi, di un ragazzo finito nelle mani di chi dovrebbe garantire la sua e la nostra sicurezza. La storia invece, dopo sette anni e 45 udienze, sappiamo come è andata: Stefano è stato pestato da uomini in divisa senza che altri uomini, quelli in camice bianco, abbiano detto nulla. Un caso raccontato anche grazie al processo (è di pochi pochi giorni fa la notizia del rinvio a giudizio di cinque carabinieri coinvolti nell’indagine bis sulla morte di Stefano, deceduto il 22 ottobre del 2009 all’ospedale Pertini, sei giorni dopo essere finito in manette per possesso di droga), e alla forza della famiglia, che ha scelto eroicamente di combattere l’indifferenza.
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Dal libro al piccolo schermo
Quello che è accaduto a Stefano Cucchi merita di essere raccontato, con qualunque mezzo a disposizione. Anche il mondo della cultura può fare la sua parte: il cinema, la televisione, il teatro. Siamo felici di sapere, quindi, che la Fandango di Domenico Procacci ha acquisito i diritti per un adattamento cinematografico/televisivo del libro di Carlo Bonini. «Stiamo lavorando ad un progetto di serie tv. Il broadcaster non è ancora definito, ma è intanto iniziato il lavoro di scrittura che vede coinvolto lo stesso Bonini insieme a Daniele Vicari, Laura Paolucci ed Emanuele Scaringi, lo stesso gruppo di scrittura di Diaz. A Daniele Vicari, con cui lavoriamo sin dal suo esordio verrà affidata la regia».
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Parla domenico procacci
Cerchiamo di capire qualcosa in più da Procacci stesso, che ci racconta: «L’idea di realizzare un film sul caso Cucchi ci accompagnava da tempo, ma non riuscivamo a trovare la chiave giusta. Poi, grazie al libro di Bonini, abbiamo trovato quella chiave, che ci porta ad allargare lo sguardo su ciò che è accaduto anche dopo. Raccontarlo merita però uno spazio più lungo rispetto alla durata media di un film, per questo abbiamo pensato ad una serie televisiva. In questo momento siamo nella fase di scrittura, ci sono incontri in corso, abbiamo parlato con diversi interlocutori e devo dire che abbiamo riscontrato molto interesse, ma è ancora un po’ presto per affermare con certezza su quale canale andrà in onda. Anche riguardo al cast ci sono tante belle idee in ballo, ipotesi che se dovessero realizzarsi darebbero al film anche un certo spessore per la qualità degli attori coinvolti».
Sui tempi, qualche certezza in più. «Nei primi mesi dell’anno 2018 – prosegue Procacci – la serie potrebbe andare in onda. Una cosa di cui sono particolarmente contento è che Carlo Bonini si sia messo al lavoro anche sulla sceneggiatura e che si sia ricomposto il gruppo di scrittura della Diaz. Senza dubbio seguiremo con trepidazione il processo. Credo che di certi fatti sia necessario parlare. È interessante e importante raccontare i processi. Penso a Carlo Giuliani e a quanto sarebbe stato illuminante sapere di più se ci fosse stato un processo in grado di raccontare i minuti successivi alla morte del ragazzo simbolo del G8 di Genova. Nel caso di Cucchi un processo c’è e credo sia un’occasione da cogliere».
Intanto nasce l’associazione intitolata a Stefano Cucchi, «che non è l’associazione della famiglia Cucchi – ci tiene a precisare Ilaria, sorella di Stefano – ma di tutte quelle persone, con percorsi diversi, che hanno scelto di mettersi in gioco, persone fantastiche che hanno deciso che valeva la pena unirsi a noi per dare voce a chi non ha voce. Se la giustizia fosse giusta e uguale per tutti, funzionerebbe da sola; invece chiede a famiglie come la nostra un sacrificio grandissimo. Sono felice di non essere più sola. Stefano è morto da solo, come un cane; ma forse il significato della sua vita era quello di dare voce agli altri. È morto d’indifferenza, e questa associazione farà in modo che questo non accada più».
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La nascita della onlus
Sabato scorso per festeggiare la nascita della onlus (fondata con Ilaria da Fabio Anselmo, Rossana Noris, Angela Gennaro, Giulia Bosetti, Irene Testa, Laura Renzi, Davide Lubrano) erano in tanti alla Città dell’Altra economia di Roma: oltre alla presenza della famiglia Cucchi al completo (i genitori Giovanni e Rita, la sorella Ilaria), c’erano molti artisti e personalità di spicco della società civile, dai giornalisti Lucia Annunziata e Riccardo Iacona al magistrato Enrico Zucca, dal Garante dei detenuti del Lazio Stefano Anastasia all’avvocato storico dei Cucchi, Fabio Anselmo, fino ad arrivare ad artisti che attraverso la loro musica hanno tenuto le persone incollate al palco e parliamo di Alessandro Mannarino, Elio Germano, Makkox, Zerocalcare, Chef Rubio, Marco Conidi e Andrea Rivera.
«È stata una serata molto emozionante. Vedere tutta quella gente, persone comuni, famiglie con bambini in silenzio per tutta la durata della manifestazione – prosegue Ilaria – … La mia storia racconta il malessere e la frustrazione di chi si ritrova a misurarsi con persone più potenti. Parlo degli ultimi della società. Stefano era uno di loro. La mia famiglia ha dovuto congelare il dolore per darsi da fare, nel nome della verità». Nella bellissima lettera scritta al fratello e letta durante la serata da Elio Germano scrive: «Stefano è stato fortunato perché è uscito dall’anonimato di morte della quale doveva essere considerato colpevole. Tanti altri non hanno avuto uguale fortuna. Sono rimaste vittime, anonime, calpestate ed ignorate».
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La petizione su change.org
La onlus ha avanzato anche una proposta legislativa, partendo dalla petizione lanciata su Change.org che ha già raccolto oltre 240mila firme e finalizzata a raccogliere il più ampio consenso parlamentare «affinché in Italia venga approvata una legge contro la tortura, per dare voce a tutti gli altri Stefano, in una società come la nostra, abituata a girarsi dall’altra parte».
La prima cosa da fare, quindi, è guardare avanti e parlare, parlare, parlare. E Ilaria lo ha capito quel giorno di sette anni fa in cui mostrò per la prima volta ai giornalisti la foto del corpo martoriato del fratello.
C’è anche uno spettacolo teatrale che da qualche anno gira l’Italia raccontando a modo suo la storia di Stefano. S’intitola: Luci della città/Stefano Cucchi di Pino Carbone e Francesca De Nicolais, un confronto ideale fra Charlie Chaplin e il ragazzo di Tor Pignattara, due reietti della società, che ognuno a suo modo e ognuno nel suo tempo, cadono sotto pugni, schiaffi, calci sempre più forti di fronte ad un avversario che gioca sporco. Ma quel fiore in scena è la luce che illumina il buio, la speranza che resiste e ci indica la via da percorrere.

(l’Unità, 23 febbraio 2017)

Dalla parte della cultura, altro che sigilli ai teatri…

18 sabato Feb 2017

Posted by francescadesanctis in cultura, Teatro

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calbi, orologio, rialto, valle

È arrivato il momento dire basta. Basta al disinteresse delle istituzioni per la cultura, basta alle prese in giro e alla violenza, basta alla chiusura dei teatri. Roma deve tornare ad essere la capitale della creatività. Una città viva, dove gli artisti possano sentirsi liberi di creare e di esibirsi e dove il pubblico possa decidere di andare a scoprire nuovi talenti nei tanti spazi sparsi nella capitale. Spazi che purtroppo stanno chiudendo, uno dopo l’altro. Inesorabilmente e sotto la bandiera della “legalità”. Sembra quasi una beffa: nella città in cui spuntano all’insaputa appartamenti con vista Colosseo e polizze sulla vita si sente l’urgenza di mandare otto poliziotti a mettere i sigilli al Teatro dell’Orologio perché non c’è l’uscita di sicurezza (che manca da 37 anni). Attenzione, non stiamo dicendo che è giusto non avere rispetto delle regole. No. Lo abbiamo detto anche durante gli anni dell’occupazione del Teatro Valle. Che però in quel periodo era un luogo effervescente, produceva cultura. Ora è uno spazio chiuso e abbandonato. Che attende dal Comune di Roma di essere restaurato con quei 3 milioni stanziati. Intanto marcisce.
A proposito dell’uscita di sicurezza scrive il giovane staff dell’Orologio: «Noi ci abbiamo provato, con uno sforzo economico e di energie non indifferente, siamo arrivati a tre metri dall’aprire quell’uscita, ma poi abbiamo trovato la Storia e ci siamo dovuti fermare». La cultura fermata dalla cultura, bel paradosso. Risultato? La compagnia umbra Teatro di Sacco stasera non andrà in scena con Combustibili.
Non è andata meglio alle associazioni che fino a due-tre giorni fa avevano la propria sede presso il Rialto Sant’Ambrogio, a due passi da Portico d’Ottavia: dal Forum italiano dei movimenti dell’acqua e il mitico circolo Gianni Bosio, per non parlare di tutte le esperienze creative passate per quei locali. Anche in questo caso ci ha pensato la polizia a sgomberare gli spazi.
Vogliamo parlare anche del Quirinetta? Quella è un’altra storia, certo (il teatro trasformato in discoteca). Sta di fatto che anche il Quirinetta non c’è più.
Ha ragione Antonio Calbi, direttore del Teatro di Roma, a dire «quando si chiude un piccolo spazio teatrale è tutto il sistema culturale della città che ne soffre: è come in un ecosistema, dove accanto alla grande quercia crescono arbusti di piccola taglia e dove una fa bene agli altri e viceversa». Quell’ecosistema purtroppo è malato. E rischia di morire se non si interviene alla radice. Bello, quindi, che Calbi si sia offerto di aprire gli spazi del Teatro India alle compagnie in cartellone al Teatro dell’Orologio, ma qui bisogna trovare una soluzione urgentemente. Chi ha scelto di dedicare la propria vita al teatro – sia esso un attore o un regista, un direttore artistico a anche un critico – lo fa sapendo di essere parte di una sgangherata famiglia, povera ma idealista, di una comunità che cerca di farsi forza nel momento del dolore. Anche partendo da questa consapevolezza il prossimo sabato è stato organizzata un’assemblea pubblica da alcuni colleghi critici (Attilio Scarpellini, Andrea Porcheddu, Graziano Graziani, Sergio Lo Gatto). Ci sarà anche Luca Bergamo, assessore e vicesindaco della giunta Raggi. Ne vogliamo parlare o no di questa orribile deriva fascista (che volendo allargare lo sguardo alle censure subite da alcuni spettacoli teatrali riguarda, in verità, tutto il paese, come già denunciato su queste pagine)? La cultura è la nostra salvezza. Altro che sigilli.

(l’Unità, 18 febbraio 2017)

Teatro Valle, il giallo degli archivi

03 venerdì Feb 2017

Posted by francescadesanctis in cultura, Senza categoria

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archivio, teatro, valle

Bel mistero quello del Teatro Valle. Che come una matrioska russa sembra contenere al suo interno tante altre piccole e grandi “sorprese”. Solo che in questo caso le “sorprese” non sono affatto piacevoli. Soprattutto per chi ha amato quel meraviglioso teatro e per chi ha a cuore la sua storia, la nostra storia.
Vi risparmiamo il riassunto della sua dolorosa vicenda, il cui esito finale è noto a tutti: il più antico teatro di Roma è chiuso al pubblico dall’11 agosto del 2014, quando si è concluso il periodo dell’occupazione successivo allo smantellamento dell’Eti (Ente teatrale italiano) di cui era parte, e tutt’ora è in uno stato di totale abbandono (come dimostrano le immagini pubblicate pochi mesi fa dal Corriere della sera) nonostante la promessa da parte del Comune di Roma di avviare i lavori di ristrutturazione per cui sono stati stanziati 3milioni e mezzo di euro. I lavori, secondo la Sovrintendeza capitolina ai Beni culturali, sono iniziati il 29 dicembre scorso, ma Alessandro Gassmann, che da tempo conduce la sua battaglia per la riapertura del Valle, denuncia sui social che l’ingresso è sigillato da tre anni. Riaprirà mai? Lo speriamo tutti, ma intanto vogliamo provare a fare la conta dei danni? Ci limitiamo a raccontarvi un bel mistero che finora nessuno è riuscito a risolvere: dove è finito l’archivio del Teatro Valle? Ci riferiamo ai manifesti, alle locandine originali, ai programma di sala che erano conservati nelle cartelline sistemate nella grande libreria a giorno dell’ufficio all’ultimo piano del Teatro. Lì c’erano documenti preziosi, dei piccoli grandi gioielli, che andavano dal 1936-7 a oggi. Solo chi ha frequentato Archivi, Biblioteche, o anche semplici mercatini, sa cosa si prova ad avere fra le mani materiali d’epoca. E 30-40 locandine originali, che raccontavano, per esempio, del debutto di Totò o De Filippo, erano appese in bella vista alle pareti. Dove sono finite? Idem certi mobili, svaniti nel nulla. Abbiamo provato a scoprirlo, ma di quel materiale non c’è traccia. Quando e da chi è stato spostato? E soprattutto dove è andato a finire?
Su tutto il materiale che era in teatro nel 2011, quando cioè è iniziato il periodo di occupazione del Valle, dovrebbe vigilare la Soprintendenza archivistica e bibliografica del Lazio. Che invece non ha informazioni in merito. L’unica traccia che c’è è una cartellina semivuota contente un unico foglio datato 2006 contenente la richiesta di censimento del materiale presente in teatro. Censimento che, evidentemente, non è mai stato fatto. «Tutto quello che c’era prima dell’occupazione è stato inscatolato e mandato al Ministero dei Beni culturali» ci assicura Isabella Guidoni, ultimo direttore del Teatro Valle. «Alla Direzione Generale Spettacolo dal vivo in piazza Santa Croce in Gerusalemme», ci dicono dal Ministero. Una parte del cosiddetto “archivio Valle”, in effetti, è andato a finire lì, ma solo la parte amministrativa: pagamenti Siae, buste paga, contratti di scrittura, insomma tutti atti formali privi di valore storico. Anche qui di locandine, manifesti, programmi di sala neanche l’ombra. «L’unica cosa di valore che avevamo – qualche libro e rivista – l’abbiamo spedita alla Biblioteca Spadoni del Teatro La Pergola di Firenze», aggiungono dalla Direzione Generale Spettacolo dal vivo. Dal Centro Studi della Fondazione Teatro della Toscana, tra l’altro, ci dicono di avere 3-4 scatole piene di fotografie provenienti dall’ex Eti (e quindi anche dal Valle). Che probabilmente erano sistemate proprio in quella libreria all’ultimo piano. Ma le locandine? I manifesti? I programmi di sala?
«Quando abbiamo occupato il teatro non c’era niente» ci racconta Laura Verga, che fu una delle prime ad avervi preso parte. Lì dove c’era l’archivio nel periodo dell’occupazione era diventata la stanza dormitorio, piena di brandine. «Le locandine appese alle pareti le aveva fatte incorniciare Antonio, lo storico custode del teatro che purtroppo oggi non c’è più. Lui sapeva tutto del teatro». Poi Laura aggiunge: «L’unico materiale che abbiamo trovato al nostro arrivo era nel sottopalco: ma si trattava di documenti privi di valore, borderò, o contratti degli anni Sessanta. Abbiamo anche provato a chiamare la Siae per sapere se erano interessati, ma ci hanno detto di no. Così sono finiti nella nostra biblioteca, che raccoglie i libri e le riviste donati durante il periodo dell’occupazione. Con la fine della nostra esperienza la biblioteca è stata smembrata e attualmente si trova in qualche casa».
Tanti i “gioielli” che mancano all’appello. Per esempio dov’è conservato il manifesto originale di Sei personaggi in cerca di autore di Pirandello, che andò in scena per la prima volta proprio al Valle nel 1921? La curiosità è che non era in teatro neanche durante gli anni di piena attività… Si trova forse nel Fondo Capranica depositato alla Biblioteca del Burcardo? Un altro pezzo di archivio, tra l’altro, è nella residenza della marchesina Capranica del Grillo in largo del Teatro Valle. Insomma, tra parti sparse qua e là e parti sparite, possiamo proprio dire che l’archivio del Teatro Valle è a pezzi. A questo punto chiudiamo con un appello: se qualcuno sa dove è finito tutto quel prezioso materiale che documenta la vita del Teatro Valle batta un colpo. È parte della nostra storia.

(l’Unità, 31/01/2017) 

Su quel tiglio secolare c’è una casa. Per artisti

26 lunedì Set 2016

Posted by francescadesanctis in cultura, Teatro

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foresta, teatro, terni

Da lassù, i suoni della natura hanno tutta un’altra musica e il profumo delle foglie è così intenso che potresti ubriacarti di essenze, mentre la luce filtrata dai rami sembra accarezzarti timidamente. Perfino gli alberi, quei tigli secolari che avvolgono e sorreggono le cinque case vincitrici del progetto Foresta – primo esperimento di residenza artistica in case sugli alberi nato all’interno del TerniFestival – a guardarli bene non sono alberi come tutti gli altri. Sono alti, maestosi, belli. E la loro forma ricorda quella delle mani, aperte e rivolte verso l’alto, pronte ad accogliere, ad ospitare, ad aprirsi all’arte e al mondo, che ti invita ad osservarlo da un’altra prospettiva.
Proprio partendo da questa suggestione, ma non solo, nasce l’idea del progetto Foresta: «Quegli alberi sembrava quasi che mi chiamassero – racconta Leonardo Delogu, artista residente e curatore del progetto – Osservando la potatura di quei tigli ho immaginato che sarebbe stato bellissimo se avessero sorretto delle case… L’idea si sposava perfettamente con i temi sui quali lavoro da anni (dal lavoro sul camminare alle pratiche di abitazione) e con le domande che cerco di pormi sul presente: cosa sta accadendo? Quale è l’identità di un città come Terni? Che poi sono le stesse questioni su cui riflette il TerniFestival 2016, dunque è stato naturale dialogare insieme e soffermarci, in particolare, sul tema della rigenerazione urbana».
Leonardo Delogu – insieme agli altri 4 artisti in residenza: Michele Di Stefano, Friso Wiersum, Veridiana Zurita, Christophe Meierhans – ha vissuto per quindici giorni proprio lassù, tra foglie, uccelli e tanti insetti. Sole, pioggia, vento non lo hanno scoraggiato neanche per un secondo. Il suo giaciglio, seppur precario, è stato a rotazione in quelle cinque bellissime abitazioni dalle forme più strane, che trasformano gli spazi esterni del Caos (Centro Arti Opificio Siri) in un luogo dove è ancora possibile sognare, anche solo tornando indietro nel tempo alla nostra infanzia (chi di noi non mai desiderato rintanarsi in una casa sull’albero?) o immaginando un futuro diverso.
«Da undici anni, in questi ex spazi industriali si svolge il Terni Festival Internazionale della creazione contemporanea – ci racconta la direttrice artistica Linda Di Pietro – Il Festival è stato pensato da Indisciplinarte nell’ambito di un progetto per la creazione di un polo per le Arti contemporanee e per la riqualificazione di aree industriali dismesse, che è diventato un luogo vivo tutto l’anno. Uno spazio in cui convivono il Teatro Secci, il Museo civico, il cinema, uno spazio per le residenze artistiche e dal prossimo anno perfino un ostello da 10 posti. Chi pernotterà nell’ostello contribuirà concretamente a produrre cultura perché una parte dei soldi servirà a finanziare gli spettacoli».
Ma quelle cinque case come ci sono arrivate, vi starete chiedendo, sui tigli centenari del Caos? Prima di tutto attraverso un Bando internazionale al quale hanno partecipato ben 86 concorrenti. Una giuria nazionale (di cui fanno parte Stefano Boeri, Mariella Stella e Leonardo Zaccone) e una giuria tecnica hanno poi scelto i cinque progetti vincitori, che sono: Equalogical Lab, gruppo di lavoro italiano; Jacob Dench, Dario Sanchez, Chris Pugsley, neozelandesi; Zapoi, Falegnameria Fa.Sa. e Simone Picano-Valeria Poggiani-Mauro Poggiani, tutti italiani.
Le casa più grande assomiglia alla carrozza di Cenerentola, con la sua scala curva che arriva al cuore dello spazio abitativo per poi proseguire come prolungamento del solaio ligneo fino a terra. Gli artisti in residenza l’hanno ribattezzata Mercedes-Benz. In realtà si chiama Geo-Desto, il Nido Modesto ed è stata creata dalla Falegnameria Fa.Sa. di Campobasso, che ha pensato ad una forma sferica, rigida ma leggera. Poi c’è la Cloudster, detta anche Casa rossa, ideata da Equalogical Lab, che ha pensato ad una struttura ancorata a terra, senza gravare sull’albero. È una auto-costruzione che utilizza materiali naturali e riciclati. Lì dentro c’è un materasso, una piccola panca, uno sgabello, un piccolo spazio in cui studiare insomma, e una rete elettrica, ma senza allacci di gas né acqua. L’essenziale per trascorrere i pomeriggi in solitudine.
La casa immaginata dal gruppo neozelandese Dench-Sanchez-Pugsley, si chiama, invece, Ottavia e si ispira ad una delle Città Invisibili di Italo Calvino. È una specie di città ragnatela, o anche di grande tenda sospesa, in cui il giaciglio è formato da un’amaca. Un po’ pericolosa, forse, per dormire (c’è il rischio di cadere da lassù!), ma senza dubbio affascinante, come un precipizio in mezzo a due montagne scoscese, dove la città è il vuoto, legata alle due creste con funi, catene, passerelle.
Il gruppo campano Zapoi ha creato Lampiride (detta anche dagli artisti Ikea), una specie di lucciola, un punto luminoso nel buio della natura che sembra sospeso nelle ore notturne, mentre di giorno assomiglia più ad un coleottero sorretto da una struttura di pilastri e travi a vista. Peter Pan, infine, pensata dai due architetti (Simone Picano e Valeria Poggiani) e un operaio ternano in pensione (Mauro Poggiano) è un vero e proprio nido, una casa formata da decine e decine di corde annodate attorno ai rami con un metodo che non prevede l’utilizzo di chiodi o colle. Ma ognuno di voi, osservandole, potrà vedere in realtà cio che vuole, o meglio cio che la vostra fantasia vi suggerisce.
Il cuore del progetto ideato da DOM e cofinanziato dalla Fondazione Carit, comunque, sta in un dispositivo architettonico in grado di comunicare con l’esterno e accogliere al proprio interno la vita e le idee degli artisti in residenza. L’installazione ricrea, quindi – attraverso giochi di luce, costruzioni e allestimenti di spazi dedicati all’incontro – l’intricato ecosistema della foresta. In questa situazione i 5 artisti hanno studiato e guardato il mondo dall’alto, immersi nella natura, rispettandone i ritmi e immaginando un progetto che sarà realizzato nell’edizione 2017 del Terni Festival.
«Trovo che sia una situazione molto dinamica – ci racconta Michele Di Stefano, coreografo e performer fondatore del gruppo Mk – La casa è idealmente un rifugio, ma nello stesso tempo è un luogo in cui l’esposizione è molto forte». La gente, infatti, passeggia tra i tigli, attraversa quel luogo ad ogni ora. Ma stavolta con lo sguardo rivolto in su. «In questi giorni abbiamo cercato soprattutto di capire certe connessioni e abbiamo camminato molto insieme noi artisti», racconta Veridiana Zurita, artista brasiliana che lavora soprattutto sulle relazioni tra l’interiorità e lo spazio. «Adoro svegliarmi tra gli alberi – dice Christophe Meierhans, belga, da anni concentrato sullo sviluppo di strategie di intervento nel quotidiano attraverso la manipolazione delle conversazioni sociali e delle abitudini condivise – L’altro pomeriggio mi sono addormentato e avevo un piede che usciva fuori dalla casa… Ad un certo punto ho sentito la gente che iniziava a chiamarmi. Le persone cercano di interagire con noi». «È un esperimento interessante, soprattutto per il concetto di comunità – aggiunge Friso Wiersum, che con il collettivo Expodium si dedica ai temi relativi all’arte, alla politica e al city making – E poi mi aspettavo una città grigia, post-industriale, invece qui ho trovato una bellissima vitalità».
Ogni mattina, attraverso gli incontri coordinati da Silvia Bottiroli, gli artisti si raccontano e si confrontano anche con il pubblico. Il legame stesso con il territorio, in realtà, non è mai interrotto. Interessante, per esempio, il dialogo serale che si instaura con gli inquilini del condominio di fronte al parco. Sui balconi sono state installate delle luci colorate che si accendono a seconda della risposta che ciascuna famiglia, dopo averne discusso durante la cena, decide di dare alle domande rivolte dagli artisti muniti di altoparlante.
D’altra parte il Terni Festival è anche questo: un momento di confronto continuo e aperto alla ricerca di una identità che è anche azione creativa. Intanto la programmazione del Festival (che dallo scorso anno si è fuso con il Teatro Stabile dell’Umbria) va avanti, fino a oggi, con i suoi artisti provenienti da tutto i mondo (fra i tanti Livia Ferracchiati, Lucia Calamaro, Fernando Rubio, Salvo Lombardo) e la sua voglia anche di mettersi in gioco, producendo, rischiando, sperimentando sempre e comunque.

(l’Unità, 25 settembre 2016)

Tim Robbins: “Mi ha salvato il teatro”

09 sabato Lug 2016

Posted by francescadesanctis in cinema, cultura, Senza categoria, Teatro

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harlequino, orwell, robbins, spoleto, tim

È un ragazzone alto più di un metro e 90 Tim Robbins. Bello e disinvolto, da giorni se ne va in giro per Spoleto in shorts e canotta. Con lui una schiera di musicisti, attori, e tante tante valigie. Lì dentro c’è tutto il loro mondo, fatto di musica, arte, passione, condiviso in parte con il pubblico di Spoleto, dove ancora fino a domani è in corso la 59esima edizione del Festival dei 2 mondi. La star di quest’anno è proprio lui, Tim Robbins, stella del cinema (premio Oscar per l’interpretazione nel film di Clint Eastwood Mystic River e regista e autore, tra l’altro, di Dead Man Walking – Condannato a morte) con un grande amore per la musica e il teatro, che a Spoleto si traducono in tre eventi: un concerto con la sua band, uno spettacolo tratto da 1984 di George Orwell e Harlequino: on the freedom, da lui scritto e diretto, in scena ancora oggi (ore 15) e domani (ore 11) al Teatro San Nicolò.
«È la mia seconda volta a Spoleto e la terza in Italia – ci racconta l’attore americano – . È un onore per me tornare quest’anno con due spettacoli teatrali e un concerto. Quando progetto uno spettacolo, lo faccio pensando a una struttura leggera che possa viaggiare. I nostri lavori viaggiano in valigie assieme alla compagnia, è una sfida a ridurre all’osso, i costumi, l’attrezzeria. Per il resto ci adattiamo a quello che troviamo su piazza. Qui a Spoleto ci troviamo benissimo, l’accoglienza della gente, la bellezza del luogo, tutti noi ci sentiamo a nostro agio. Prima di arrivare qui quest’anno siamo stati a un festival a Sibiu in Romania, lo scorso anno a Lione e in Spagna; il teatro di Actors’ Gang è legato alla tradizione europea. Per sviluppare la mia idea di teatro è stato fondamentale l’incontro con il Theatre du Soleil e Arianne Mnouchkine e uno dei suoi attori, Georges Bigot, che ha collaborato a lungo con noi».
Parliamo di musica. Il concerto di Tim Robbins & Friends è stato uno dei primi eventi del Festival: l’abbiamo vista cantare e suonare con la chitarra brani suoi, per noi è stata una gran bella sorpresa vederla in queste nuova veste… quando ha iniziato ad amare la musica?
«Mio padre era un musicista e un attore. La musica ha sempre fatto parte della mia vita. Mia madre era una cantante, mio fratello David è un musicista (sue sono le musiche di Harlequino) e mio figlio Miles ha una sua band. Entrambi hanno suonato con me a Spoleto qualche giorno fa. Ho iniziato a suonare molto presto e non ho mai smesso, ma la mia carriera ha preso altre strade. Sono tornato a dedicarmici con più costanza negli ultimi anni, e qualche anno fa con il produttore musicale Hal Wilner abbiamo realizzato un disco delle mie canzoni eseguite dai Rogues con cui appena possibile non perdiamo occasione per esibirci dal vivo».
Considerando le sue grandi passioni (il cinema, il teatro, la musica), cerco di immaginare com’era da ragazzino… Che infanzia ha avuto?
«Sono cresciuto nel Village degli anni’60/’70. New York era una città molto diversa da quella di adesso e nel mio quartiere c’erano bande di giovani e un’alta criminalità. Credo che sia stata la fascinazione del teatro a salvarmi da prendere una cattiva strada. Le mie sorelle lavoravano a uno spettacolo tratto dal Piccolo Principe. Avevo 14 anni e non avevo mai fatto teatro. È stata una rivelazione».
Quindi il teatro è entrato nella sua vita molti anni fa e ancora oggi continua ad avere un ruolo molto importante. Con la sua compagnia, The Actor’s Gang, nata nel 1984, che tipo di lavoro porta avanti?
«Il primo spettacolo della compagnia è del 1982, il nucleo originale era formato da studenti della UCLA, appassionati di musica punk e rock e il teatro ci interessava per la sua matrice sociale. Così cominciammo a rivolgerci al teatro europeo, ai classici, Cechov, Ibsen, Shakespeare, Brecht… Come modelli avevamo Peter Brook, Grotowski, Arianne Mnouchkine, ma subivamo anche l’influenza dei Sex Pistols e dei Clash, e volevamo portare quella stessa energia nei nostri spettacoli, sul palcoscenico dell’università. Il nostro primo spettacolo è stato Ubu Roi, e l’accoglienza che ha avuto ci ha incoraggiato a continuare».
Qui a Spoleto abbiamo visto “1984”, una saga del potere rivisitata che tira in ballo la guerra in Iraq e il Grande Fratello, e proprio in questi giorni “Harlequino: on the freedom”, rivisitazione della Commedia dell’arte. Da dove nasce il suo interesse per questa forma artistica nata all’inizio del Cinquecento?
«La mia fascinazione per la Commedia dell’Arte ha radici lontane. Negli anni ’80 ho seguito un workshop di Georges Bigot del Theatre du Soleil sulla maschera. E abbiamo portato quegli insegnamenti nei nostri spettacoli e li abbiamo usati anche nel lavoro che svolgiamo nelle carceri. I detenuti sono incentivati ad esprimersi attraverso l’uso delle maschere, a impersonare Arlecchino, Pantalone, il capitano o gli amanti. Ma fino all’anno scorso non avevamo mai messo in scena uno spettacolo con i personaggi della Commedia dell’Arte. Sei o sette anni fa ha debuttato uno spettacolo dal titolo Break the whip e parte del processo creativo di quello spettacolo consisteva nel selezionare i caratteri della Commedia dell’Arte italiana, metterli in un vascello che attraversava l’Atlantico e raggiungeva l’America all’inizio del XVII secolo, ovvero all’epoca dei primi insediamenti, con la fondazione di Jamestown, segnata da eventi cruenti, addirittura episodi di cannibalismo. Dall’esperienza di quello spettacolo mi è rimasta la voglia di approfondire la conoscenza della Commedia dell’Arte. Mi sono concentrato sui primi ottanta anni della Commedia dell’Arte, di cui non esiste nulla di scritto, non ci sono testi, né canovacci ma sono solo stati ritrovati dei contratti per gli attori. E questo certamente conferma che molta parte consisteva nell’improvvisazione. Ma ero curioso di capire di cosa parlassero: quali potevano essere gli argomenti trattati nelle rappresentazioni all’epoca? Nel 1530, di che cosa si parlava nelle strade? Cosa attirava l’attenzione del pubblico? Le mie ricerche mi hanno portato a scoprire che c’era un fenomeno nuovo che era iniziato alla fine del XV secolo, la tratta degli schiavi dall’Africa. Nel 1530 quando la Commedia dell’Arte fa la sua comparsa ci sono già centomila schiavi africani in Europa. Ma chi erano e chi li possedeva? Così ho cominciato a scrivere di una compagnia di attori della Commedia dell’Arte che irrompe durante una conferenza e c’è il confronto tra gli accademici da una parte e questi giovani attori che ne mettono in questione l’origine. Non so dove stia la verità, ma so come gli artisti e gli attori lavorano, e che essere un attore in diverse epoche voleva dire esporsi a grandi rischi, fino a metter a repentaglio la propria vita, per raccontare le storie che si aveva l’urgenza di raccontare, ma non sempre ben accette ai governanti. Se non abbiamo traccia scritta dei primi ottantott’anni perché gli scritti sono andati distrutti o bruciati dalla censura, si è trovato il resoconto di un processo di un duca che volle mettere a morte tre attori per il contenuto del loro spettacolo. Sono molto curioso di sperimentare la risposta del pubblico italiano… Ne ho discusso con Dario Fo e mi ha incoraggiato».
Si sente più artista facendo cinema o teatro?
«Ritorno sempre al teatro come a una sorgente di energia. È una forma di sopravvivenza, di antidoto a Hollywood, è il mio modo di restare con i piedi per terra. Il successo a Hollywood ti costringe a una forma di superficialità che a lungo andare può essere molto rischiosa per il proprio equilibrio non solo come artista ma come persona. Ci si trova a dover scendere a compromessi, anche artistici, soprattutto negli ultimi tempi. Il teatro mi consente di tornare alla fonte della mia creatività, di essere autonomo e di creare ciò che sento la necessità di creare».
Che progetti ha per il futuro?
«Sto lavorando con la compagnia a un nuovo spettacolo intitolato Refugees. L’America è nata grazie ai rifugiati, all’immigrazione, noi siamo tutti rifugiati. Trovo che l’Italia stia dimostrandosi capace di rispondere con umanità all’arrivo di tanti rifugiati sulle coste dal Mediterraneo».

(l’Unità, 9 luglio 2016)

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